La mente di Matt si schiarì rapidamente. L’irrigidimento al collo gli fece capire che non si era mosso da un bel po’. La sua paziente, le braccia bloccate da cinghie in cuoio, lo stava implorando silenziosamente nella semioscurità. Gli occhi spalancati erano colmi di paura e confusione. Il tubo in poliestere che le aveva infilato tra le corde vocali era ancora al suo posto. L’apparecchio per la respirazione artificiale attaccato al tubo ronzava e sibilava mentre pompava aria nei polmoni della giovane a ogni respiro. Julie Bellet entrò nella stanzetta.
«Buongiorno a tutti», esclamò. «Ha dormito per almeno tre ore. Aveva un aspetto tanto sereno che nessuno di noi ha avuto il coraggio di svegliarla.»
«Io… ehm… ero un po’ stanco», riuscì a dire. «Penso sia ora di abbandonare il decaffeinato e tornare a quello forte e nero.»
Fece un timido sorriso e si girò verso Nikki. Sapeva dai racconti di chi si era svegliato attaccato a un respiratore quanto fosse spiacevole e spaventosa la sensazione data dal tubo infilato giù per la gola e nella trachea, avendo per di più le mani legate con le cinghie. Accese la lampada a fluorescenza sopra la testa.
«Dottoressa Solari, mi spiace di essermi addormentato così. Sono stati due giorni duri. Io sono Matt Rutledge, il suo medico. Mi capisce?» Nikki annuì, gli occhi fissi sul suo viso. «Bene», continuò. «Lei si trova nell’ospedale regionale dalla contea di Montgomery, a Belinda, nel West Virginia. Ho dovuto infilarle il tubo, perché ieri lei è quasi annegata in un lago. È rimasta priva di sensi per più di dodici ore.»
Nikki, ignorando il dolore alle tempie, allungò il più possibile la mano e indicò il suo viso.
Il tubo. Lo tiri fuori! Per favore, me lo tolga. Mi sta soffocando!
Nikki pregò che il medico la comprendesse.
Matt Rutledge aveva qualche anno più di lei, e un viso gentile e virile. I capelli scuri erano tirati all’indietro in una coda di cavallo che gli scendeva fin sopra il colletto della camicia.
«So che vorrebbe che le togliessi subito il tubo», disse. «So che è terribile, ma la prego, faccia del suo meglio per rilassarsi e respirare con calma. Pensa di avere bisogno di qualche farmaco per riuscirci?… Bene. Mi faccia un segno se dovesse cambiare idea. Il respiratore l’aiuta, tutto quello che lei deve fare è respirare. Le prometto che le toglierò il tubo appena potrò. Prima devo farle una radiografia e controllare il livello d’ossigeno nel sangue. Se le tolgo le cinghie, mi promette di tenere le mani lontane dal tubo?»
Nikki annuì. L’infermiera, che era rimasta sulla porta, si avvicinò, si presentò e slegò le cinghie.
«Nikki», disse, «il palloncino è ancora gonfio. La prego di non cercare di togliere il tubo. Potrebbe rovinarsi le corde vocali. D’accordo?»
Nikki si sforzò di annuire, anche se le sembrava di avere una canna per innaffiare in gola. A livello conscio, sapeva a che cosa serviva quel tubo, ma aveva la sensazione che la stesse soffocando. Chiuse gli occhi, mentre il medico le auscultava cuore e polmoni, le esaminava l’addome e controllava il battito alle braccia e alle gambe. Poi le chiese di aprire gli occhi e li esaminò con un oftalmoscopio. Aveva un modo di fare rassicurante e un tocco delicato. Per quanto poteva dire, sembrava sapesse quel che stava facendo. Si appoggiò al cuscino e si sforzò di respirare più lentamente. Pezzo dopo pezzo, gli eventi sulla strada e nel bosco si riordinarono.
Perché? La domanda s’impresse nella sua mente. Perché?
«Mi sembra vada tutto bene», commentò Matt. «Ora vado a scrivere alcune prescrizioni e a gettarmi un po’ d’acqua in faccia. Poi tornerò.»
Uscito Matt, l’infermiera Julie sistemò le lenzuola e asciugò il viso e le mani di Nikki.
«Guarirà perfettamente», osservò. «Il dottor Rutledge non avrà l’aspetto di un professore universitario di medicina, ma, mi creda, è un medico fantastico, il migliore di questo ospedale. Ho sentito che lei è di Boston. Ecco, lui è cresciuto qui, ma ha studiato a Harvard. È andato al lago in ambulanza e l’ha intubata là.»
Nikki le fece sapere di avere capito alzando debolmente il pollice.
Dottoressa. Proprio prima che il grassone elegantemente vestito l’aggredisse, l’aveva chiamata «dottoressa». Chi poteva averglielo detto? Quei due non avevano avuto alcuna intenzione di derubarla o di violentarla. Volevano ucciderla.
Perché?
Matt tornò accanto al suo letto dopo essersi lavato e sbarbato e avere radunato le cose che gli sarebbero servite per Lewis Slocumb. Le ore di sonno gli avevano giovato e, almeno per il momento, si sentiva concentrato e pieno di energie. Ieri aveva avuto intenzione di tornare alla fattoria degli Slocumb per sostituire il tubo di fortuna dopo poche ore di lavoro all’ospedale, ma era passata un’intera giornata. Ebbene, pensò, non poteva fare di più e sperò che Frank Slocumb avesse avuto il buon senso di portare il fratello in ospedale se fossero sorte complicazioni.
Nikki Solari pareva sveglia e più vivace. Le radiografie non avevano rivelato una polmonite e i livelli di gas del sangue erano ottimi. Era ora di mantenere la promessa e di togliere il tubo. Forse così, le domande su ciò che era successo a Crystal Lake avrebbero trovato risposta. Un mistero era già stato risolto, e cioè lo strano sogno in cui si era trovato Matt. Sul piede sinistro della dottoressa Solari vi era il tatuaggio, arancione e nero, di un mostro Gila. Matt l’aveva notato mentre le faceva una prima visita, ma era stato troppo impegnato a cercare di salvarle la vita per prenderlo in considerazione.
La donna dalle eleganti mani dalle lunghe dita, che aveva pensato potesse essere una ceramista, era un coroner. E il coroner, che suonava musica bluegrass, aveva un mostro Gila nero e arancione tatuato sul piede. Per quanto popolari fossero diventati i tatuaggi, non erano ancora molto comuni tra moderati studenti di medicina e medici. Si chiese se fosse anche tanto anticonformista da fare uso di droghe o di smerciarle. Era forse per quello che era stata inseguita nei boschi vicino alla Niles Ledge?
Matt rifletté su questa possibilità mentre si preparava a rimuovere il tubo del respiratore. Visualizzò anche il suo tatuaggio, inciso sul braccio, un ricordo permanente e continuo d’amore e perdita. No, decise, fissando gli occhi espressivi di Nikki Solari, quale che fosse il significato di quello strano tatuaggio, non aveva nulla a che fare con le droghe.
La tecnica di rimozione del tubo endotracheale era semplice quanto le possibili complicazioni della procedura erano pericolose. Aspirare la trachea, sgonfiare il palloncino, costringere la paziente a tossire ed estrarre il tubo. Semplice. In agguato nell’ombra, tuttavia, vi era lo spettro di una contrazione riflessa della laringe, tanto forte da chiudere il condotto dell’aria e tanto stretta da rendere quasi impossibile il reinserimento di un tubo respiratorio.
Matt non aveva mai eseguito una tracheotomia d’urgenza, ma aveva a portata di mano tutto l’occorrente. In quel momento non c’era nulla al mondo che desiderasse fare meno volentieri.
«Dottoressa Solari, siamo pronti», l’avvisò.
Nikki annuì e gli diede un debole segno di via. Una donna forte, pensò Matt. Qualsiasi altra cosa fosse, comunque era in gamba.
«Bene», disse. «So che non sarà piacevole, ma dobbiamo farlo. Aspirazione, per favore, Julie.»