Margie Briscoe, la levatrice, entrò nella sala parto, controllò il monitor del bebè, quindi si avvicinò al capezzale.
«Tutto bene», confermò. «Come te la stai cavando, Sher?»
«Sopporto le contrazioni, almeno per ora, ma sto perdendo la pazienza.»
«Non saresti normale se non fosse così. Su, fatti visitare. Rilassati e lascia cadere di lato le ginocchia… Perfetto… Sei anche ben distesa. Grazie a tutta la preparazione che hai fatto, non credo che dovremo fare una episiotomia.»
«Fantastico.»
«Non durerà ancora molto, mia cara.»
«Bene.»
«Sei sempre decisa a chiamarla Donelle?»
«Donelle Elizabeth Cleary. Se fosse stato un maschietto l’avremmo chiamato Donald Junior. Elizabeth è il nome di mia nonna.»
«Un nome bellissimo.»
«Sarà una bellissima bambina. Oh, Donny, eccone un’altra… Mio Dio… Oh, questa è peggiore della altre… No, aspetta… Oh, Signore, fa’ che sia molto peggiore… Oh!»
Margie pose le mani sulla pietra, grossa come una palla da pallavolo, che era l’utero che si contraeva di Sherrie e fissò il monitor che rivelò solo il previsto rallentamento del battito cardiaco fetale. Un minuto, due, tre. Sherrie continuava a gemere e ad ansimare.
«Io… non… so… se… posso… Aspetta, aspetta, sta andando un po’ meglio. Sta scomparendo. Oh, mio Dio…»
«La contrazione tornerà subito», esclamò Margie, «perché sta accadendo! La piccola Donelle sta per arrivare. Don, per favore, chiama Sue e dille che è ora. Sherrie, ti massaggerò un po’ la pelle per distenderla e aiutare la piccola a uscire… Brava. Ce l’hai fatta, Sher. Sei arrivata fino in fondo senza farmaci. Continua a respirare rapidamente e preparati a spingere. Tutti, al loro posto? Sue, il pediatra sta arrivando?… Fantastico. Don, infilati questi guanti, vieni qui e prendi il mio posto. Io resto vicina a te. Farai nascere tu questa bambina. Pronto?»
«Io… io credo di sì.»
«Sarai bravissimo. Sherrie, preparati a spingere. Ecco, sta uscendo la testa. Spingi, Sherrie, spingi!… Eccola qui, Don. Prima la testa, ora tirerò fuori una spalla. L’hai afferrata?… Bene! Ora l’altra spalla, ed eccola qui. Bellissima. Proprio splendida. Le ventuno e quindici. Sue, aspirazione, per favore.»
Le urla piagnucolose di Donelle Elizabeth Cleary riempirono la sala parto. Don Cleary, che aveva il fisico muscoloso e lo stoicismo di uno scaricatore portuale, stava piangendo quando l’infermiera prese sua figlia, l’avvolse e la depose sul petto di Sherrie, che era raggiante come il sole di mezzogiorno, le guance solcate da lacrime.
«Ve l’avevo detto», disse a tatti e a nessuno in particolare. «Ve l’avevo detto che sarebbe stata una cosa incredibile.»
Tre ore dopo, quando Sue entrò nella sua stanza, Sherrie stava dormicchiando, ma sorrideva ancora. Suo marito, seduto davanti alla culla di vimini, fissava, colmo di soggezione, la perfezione che era sua figlia.
«Sherrie, tesoro, svegliati», le intimò dolcemente Sue. «C’è qualcuno per te, una persona molto speciale. Ecco, ti passo sul viso un panno freddo. Bene. Sei sveglia?»
«Sono sveglia. Che succede?»
«Signor Cleary, è sveglio?»
«Certo. Chi c’è?»
«Ve lo direi, ma credo che dovrete scoprirlo da soli.» Corse alla porta e gridò: «Sono pronti».
La moglie del presidente degli Stati Uniti, da sola, entrò nella stanza e si diresse subito da Sherrie. L’espressione sui volti di Sherrie e Don fece capire che non era necessaria alcuna presentazione.
«Signora Cleary», si presentò ugualmente la visitatrice, «sono Lynette Marquand. Congratulazioni per la sua splendida bambina. Anche a lei, signor Cleary.»
«Grazie», riuscì a dire Sherrie. «Grazie. Sono realmente sorpresa.»
«È un piacere per me essere qui in questa occasione tanto gioiosa», ribatté Lynette. «Signor Cleary, signora Cleary, ho delle splendide notizie per voi.»
23
L’ambasciata della Sierra Leone a Washington si trovava sulla Diciannovesima Strada, non lontana dagli uffici del PAVE. Un tempo signorile villa di città, ora era caduta in rovina. Tendaggi e tappeti di scarso valore e un condizionamento d’aria costituito di elementi applicati qua e là alle finestre, alcuni dei quali neppure funzionavano. Ellen era già stata in altre ambasciate, come quelle del Canada, del Messico o della Francia, ma nessuna era tanto antiquata e malridotta come questa.
Era arrivata in orario, ma dal torpore del giovane addetto alla ricezione seduto dietro il bancone, aveva capito che avrebbe incontrato sua eccellenza Andrew Strawbridge quando sarebbe capitato. Nell’anticamera, sei indefinibili sedie in legno dallo schienale diritto, tre lunghi tavoli e niente da leggere, a parte parecchie copie di un vecchio opuscolo di propaganda che decantava i meriti della Sierra Leone e una copia del Time letta e riletta. Era una fortuna che l’ambasciatore non potesse riceverla subito, aveva pensato Ellen. Aveva bisogno di un po’ di tempo per calmarsi e concentrarsi. In quel momento c’era qualcuno che stava rimuovendo dalla sua mente sia la febbre di Lassa sia l’Omnivax, e cioè Rudy Peterson.
Come aveva fatto spesso, Ellen era rimasta a dormire nella stanza degli ospiti nella casetta di Rudy. Quello che lui le aveva svelato riguardo la febbre di Lassa e la prospettiva di incontrare Strawbridge l’avevano innervosita e, dopo poche ore di un sonno agitato, si era alzata, aveva indossato l’accappatoio che Rudy aveva tirato fuori per lei, aveva fatto del caffè e portato i suoi appunti nello studio al primo piano. Non erano ancora le quattro e mezzo del mattino. Mentre cercava una penna nel cassetto in alto a destra dello scrittoio, aveva visto una busta. Era in cima a una pila di fogli e non ci avrebbe fatto caso, se non avesse notato che era indirizzata a lei, scritta con l’accurata calligrafia di Rudy. Nell’angolo superiore destro vi era pure un francobollo, ma di valore non sufficiente per inviarla. Ellen si era detta, e a ragione come scoprì in seguito, che forse la lettera era stata scritta da tempo, quando le tariffe postali erano più basse.
Aveva infilato di nuovo la busta nel cassetto e per mezz’ora era riuscita a non tirarla fuori. Era sempre stata un tipo curioso, probabilmente più della maggior parte della gente, e la passione per il pettegolezzo la metteva spesso in imbarazzo. Dato il suo carattere, non le era riuscito facile resistere alla tentazione offerta da quella scoperta. Alle cinque del mattino non era più distaccata e analitica come al solito. In quei trenta minuti le sue razionalizzazioni si erano fatte sempre più deboli. Se Rudy non aveva avuto l’intenzione che lei la vedesse, perché l’aveva lasciata nello scrittoio, dove avrebbe potuto trovarla? Se era combattuto tra lo spedirla o no, non l’avrebbe così liberato dal tormento? Per quanto assurdi e difettosi fossero quei ragionamenti, pian piano era riuscita a seppellirvi sotto il buonsenso. Quasi prima di rendersene conto, si era ritrovata con la busta aperta in mano. Il proposito di non leggerne il contenuto durò solo pochi secondi.
Cara Ellen,
penso che la cosa migliore sia togliere subito di mezzo questa parte. Ti amo. Ti amo da quando Howard ti ha portato per la prima volta nella nostra camera al dormitorio e ci ha presentati. Sono passati quattro anni da quando lui se ne è andato di casa, e sono innamorato di te come non mai, pur sapendo che tu non hai mai provato gli stessi sentimenti per me. Che fare?
Come sai, nel corso degli anni sono uscito con un bel po’ di donne. Con alcune sono andato a letto, e ho anche cercato di instaurare una relazione seria con un paio di loro. Ho comunque sempre saputo che non ero onesto nei loro confronti. Poi, alcuni anni prima che distruggesse il vostro matrimonio, Howie mi aveva detto, in una delle nostre conversazioni da uomo a uomo, che non ti era fedele. Avrei voluto dirti allora cosa stava combinando e quello che io avevo sempre provato per te. Ma mi era sembrata una cosa, come dire, sbagliata. Pur sapendo ciò che sapevo e amandoti come ti amavo, non sono mai riuscito a smettere di essere suo amico. Di questo provo vergogna.