Выбрать главу

Nella minuscola camera c’era un letto che avrebbe dovuto essere più grande di un letto matrimoniale, ma che sembrava più piccolo, e una sedia di vimini bianca con schienale a ventaglio. C’era inoltre un piccolo comodino a tre cassetti su cui erano poggiati alcuni vestiti ben piegati. Nikki raggiunse con passo felpato il minuscolo bagno, si lavò il viso con acqua fredda, quindi si spazzolò denti e capelli con oggetti da toilette nuovi di zecca che sembrava la stessero aspettando. Sulle braccia, una gran quantità di lividi provocati dalle fleboclisi, dai prelievi di sangue e Dio solo sapeva che altro. Sopra l’orecchio destro correva un’escara morbida e grossa, lunga almeno cinque centimetri. Aveva l’impressione di sapere cosa l’aveva causata, ma non riusciva a focalizzare la mente su nulla di specifico.

Tornò in camera da letto, si sedette sulla sedia in vimini e lasciò cadere pesantemente i piedi sul letto. L’impatto fece sobbalzare Matt, che continuò, tuttavia, a giacere imperturbato, un sorrisetto sulle labbra indicava quanto il suo sogno fosse diverso da quelli che avevano tormentato lei. Aveva calciato di lato le lenzuola e giaceva con indosso i pantaloni di una tuta, nudo dalla cintola in su. Aveva la vita piena e le spalle larghe di un atleta non più in pieno rigoglio che cercava comunque di mantenersi in forma. Non era mai stata attirata da uomini che portavano i capelli a coda di cavallo, ma la sua pareva adattarsi perfettamente ai suoi lineamenti marcati. Nel complesso non era bello come un attore del cinema, ma aveva quelle fattezze fisiche che piacevano a lei, e… le aveva appena salvato la vita. S’inginocchiò accanto al letto ed esaminò il tatuaggio sul deltoide. Rappresentava, cosa aveva detto Matt? un biancospino, lungo circa cinque centimetri, e splendidamente riprodotto, per quanto ne capiva. A causa del suo stesso insolito tatuaggio, prestava sempre attenzione a quelli degli altri. Era la prima volta che vedeva tatuato un albero. Comprese che c’era qualcosa dietro quell’albero. Alzò la testa e i suoi occhi si ritrovarono a pochi centimetri da quelli di Matt. Sentì il suo respiro e si aspettò che lui reagisse in qualche modo alla sua vicinanza. Niente. Continuò a dormire e, a giudicare dall’espressione serena, a sognare.

L’orologio sul cassettone segnava le sette e mezzo, il che corrispondeva più o meno alla luce che filtrava attraverso le tende. Pensò che svegliare il suo nuovo compagno di stanza avrebbe richiesto un attacco frontale, ma non subito. Si rimise a sedere e cominciò a riordinare ciò che ricordava degli eventi strani e terribili che erano successi dopo la sua partenza da Boston. Una cosa, forse l’unica, era chiara: Kathy Wilson era al centro di ciò che stava succedendo. Era una di almeno tre persone di Belinda con una sindrome strana, spaventosa e letale. Matt era convinto che quell’insolito insieme di sintomi fosse causato da esposizione a materiale tossico. La sua teoria valeva quanto qualsiasi altra, soprattutto ora, dopo la scoperta dell’enorme discarica di rifiuti tossici nella caverna vicino alla miniera di Belinda. Qual era però il collegamento di Kathy con la miniera? E come mai il capo della polizia aveva assoldato degli uomini per uccidere Nikki e in seguito era parso tanto interessato a sapere con chi Nikki avesse parlato della malattia di Kathy?

Al momento non aveva idea di come rispondere alle sue stesse domande. Conoscendo, tuttavia, Joe Keller come lo conosceva, se lo studio anatomico del sistema nervoso di Kathy poteva rivelare un indizio, lui l’avrebbe scovato. Sul comodino c’era un telefono con un biglietto appiccicato che diceva che le telefonate locali erano gratis e quelle a lunga distanza dovevano essere fatte a carico del destinatario o con carta di credito. Trattenendo il fiato, compose il prefisso per la chiamata a carico del destinatario e il numero che sperava di ricordare fosse quello della linea diretta di Joe Keller. Se l’orologio era preciso, il suo capo era nello studio già da un’ora, forse due, a sorseggiare caffè nero e denso e a risolvere enigmi anatomici e biochimici.

«Che Dio ti benedica», mormorò appena sentì la sua voce accettare la chiamata con un «sì».

«Joe, sto bene», disse subito.

«Grazie a Dio. Eravamo tutti preoccupati. Ci siamo addirittura rivolti alla polizia.»

Nikki stava per spiegargli che un capo di polizia era responsabile dei suoi guai, ma si interruppe di colpo. L’avrebbe fatto in seguito.

«Sto tornando a casa. Dovrei arrivare sul tardi questa sera.»

«Bene.»

«Joe, ho avuto dei problemi nel West Virginia proprio a causa della mia amica Kathy, quella cui hai fatto l’autopsia.»

«Che genere di problemi?»

«Ci sono due casi laggiù che sembrano uguali al suo, neurofibromi e psicosi paranoide progressiva.»

«Perbacco, che notizia», esclamò Keller. «Vedi, il tuo istinto era assolutamente giusto in questo caso. Stavo proprio esaminando i vetrini del cervello della signorina Wilson. Ha, senza ombra di dubbio, una encefalopatia spongiforme.»

Encefalopatia spongiforme. Nikki trattenne il fiato. Quella malattia del sistema nervoso, degenerativa, trasmissibile e infine letale, aveva una gran varietà di forme, tra cui una chiamata morbo di Creutzfeldt-Jacob, il morbo kuru, osservato negli indigeni che mangiavano il cervello umano della Nuova Guinea, l’insonnia familiare letale e l’encefalopatia spongiforme bovina, conosciuta anche come BSE o, più comunemente, come morbo della mucca pazza.

Eccitata, Nikki allungò le gambe e tirò con forza un calcio nella pianta del piede di Matt che serrò il cuscino dietro la testa e spostò il piede. Questa volta gli colpì con più forza il polpaccio con il tallone. Lui gemette e cominciò a stirarsi.

«Continua, Joe», lo incitò, non era tanto sciocca da chiedergli se ne era certo. «È incredibile.»

«Hai detto che ci sono altri due casi là dove sei?»

«Sì, nella città dove è cresciuta Kathy.»

Un altro calcio e finalmente Matt parve uscire dal suo profondo sonno. Se non aveva preso alcun farmaco, era un ottimo candidato per il libro del Guinness dei primati. Era più facile svegliare i suoi pazienti nello studio del coroner.

«E questi altri casi», chiese Keller, «Avevano anche loro una encefalopatia spongiforme?»

«Non lo so. A un esame approssimativo, i loro cervelli erano parsi normali, per cui non è stato fatto alcun esame al microscopio.»

L’encefalopatia spongiforme era provocata da germi chiamati prioni, particelle proteiche infettive capaci di riprodursi senza DNA o RNA (acido ribonucleico). Una delle caratteristiche dell’encefalopatia spongiforme era che, nonostante un quadro clinico spesso spettacolare, il cervello sembrava normale e, solo quando sezioni di cervello venivano esaminate al microscopio, si potevano notare buchi diffusi e spongiformi. Un’altra caratteristica era che il periodo di incubazione della malattia era di una decina d’anni o più, durante i quali la vittima poteva infettare altre persone.

«Anche i tuoi casi presentavano neurofibromi?» domandò Keller.

Matt ora era sveglio, si stava strofinando gli occhi per togliersi le ultime tracce di sonno e la fissava con espressione interrogativa. Lei si portò un dito alle labbra e gli indicò che l’avrebbe messo tra poco al corrente.

«Sì, tutti e due. Da ciò che mi è stato detto, l’esame al microscopio non ha rivelato nulla di insolito.»

«Forse sì o forse no», commentò Keller. «Ho provato su di loro un certo numero di coloranti e di combinazioni di coloranti e ho trovato un metodo che distingue chiaramente queste lesioni dai neurofibromi di riferimento nella mia biblioteca.»