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Keller, l’uomo curioso, intellettuale. Nikki sorrise raffigurandosi il suo capo. Non faceva che giocherellare con i coloranti e il potente microscopio elettronico del dipartimento. La sua biblioteca, oltre a centinaia di testi, includeva centinaia o forse migliaia di campioni non colorati di ogni organo e di un numero infinito di malattie, ognuno catalogato con cura. A quanto pareva, tra quei tessuti non trattati con colorante vi erano alcuni neurofibromi comuni, i campioni di riferimento.

Encefalopatia spongiforme con insoliti neurofibromi. La sindrome di Belinda, ipotizzò Nikki… O forse il morbo Rutledge-Solari.

«Joe, ascolta, saremo a casa tra le dieci e la mezzanotte.»

«Dovrei essere ancora qui.»

«Se ci sarai, fantastico, altrimenti saremo lì domattina.»

«Saremo?»

«Un medico di quaggiù mi ha salvato la vita due o tre volte in questi ultimi tempi. Ha più che un interesse passeggero a questa sindrome. Lui pensa che sia provocata da una discarica industriale segreta che riversa sostanze tossiche nella falda freatica della sua città.»

«Per quello che sappiamo sulle infezioni da prione», ribatté Keller, «non vedo proprio come potrebbe essere quella la causa.»

«Va bene, ne discuteremo a quattr’occhi. Grazie, Joe.»

«Sono tanto sollevato nel sapere che stai bene», osservò Keller. «Oh, a proposito, la polizia ha trovato l’uomo che ha ucciso la tua vittima d’annegamento, Roger Belanger. Si chiama Halliday. Ecco spiegata la ‘H.’ Erano amici e soci in affari. La polizia ritiene che abbiano litigato per soldi. Halliday lo aveva invitato a casa sua per fare pace. Ha compilato un assegno, poi i due hanno bevuto qualcosa insieme. Halliday è riuscito a portare Belanger nella piscina, gli ha stretto le mani attorno al collo e lo ha trascinato fino sul fondo.»

«Procedura», sentenziò Nikki.

«Esattamente», concordò Keller.

Quando Nikki appese la cornetta, Matt si era infilato una felpa blu, nuova, con la scritta Yale sul davanti.

«Buongiorno», lo salutò lei.

«’Giorno a te.»

Lei indicò la felpa.

«Hai frequentato quell’università?»

«No, ma mentre tu stavi provando qualcosa nel negozio Target, ieri sera, ho cercato qualcosa anche per me. Questa l’avevano nella mia taglia.»

«Che tu ci creda o no, me ne ricordo. O almeno, circa. Quale università hai frequentato?»

«La vecchia e buona WVU. Quella dei montanari, era l’unica che potevamo permetterci. Si è rivelata una grande università.»

Nikki era certa di ricordare che un’infermiera le aveva detto che Matt aveva studiato medicina a Harvard, eppure lui non aveva ritenuto valesse la pena accennarne. Come se avesse avuto bisogno di altri punti dopo ciò che aveva fatto, ne aggiunse, tuttavia, un altro per il riserbo.

«Dormi profondamente», osservò.

«Già, e tutti se ne accorgono un giorno o l’altro.»

«Se oggi non ti riuscisse di camminare, la colpa è mia, ti ho svegliato a forza di calci.»

«Le infermiere all’ospedale mi interrogano quando telefonano, per assicurarsi che sia sveglio. Non sanno che sono diventato così bravo che posso rispondere alla maggior parte delle loro domande, anche a quelle matematiche più complesse, dormendo. Ricordi qualcosa della notte scorsa?»

«Sfortunatamente sì. Spero di averti ringraziato abbastanza per avermi salvato la vita.»

«Non mi piace perdere i miei pazienti. Allora, con chi parlavi al telefono?»

«Ho chiamato il mio capo, Joe Keller, per dirgli che ero viva e che stavo bene, e per sapere se l’esame microscopico di Kathy avesse rivelato qualcosa.»

«E?»

«Non ci crederai, Matt, ma Kathy aveva una encefalopatia spongiforme. Joe ne è assolutamente certo, e, credimi, lui non sbaglia mai.»

Matt crollò sul letto, incredulo. Non conosceva a fondo le varie versioni di quella malattia, ma si teneva al corrente leggendo testi medici, per quanto, almeno, glielo consentiva la sua giornata piena di lavoro.

«Il morbo del prìone?»

«Sì», rispose Nikki. «Una piccola puntualizzazione, la maggior parte lo pronuncia come hai fatto tu, ma Stanley Prusiner, che ha vinto il premio Nobel per i suoi studi sul prione, lo pronuncia con l’accento sulla o. L’ho sentito parlare circa un anno fa.»

«E prione sia, allora. Incredibile. Credi che anche i miei due casi abbiano avuto l’encefalopatia spongiforme?»

«Come posso dire il contrario?»

«Che diavolo?… Che mi dici dei neurofibromi? Qualcosa di speciale anche su quelli?»

«A quanto pare sì. Joe Keller è una specie di fanatico dei coloranti. Capace di provarne una dozzina su un pezzetto di tessuto solo per vedere che succede. Mi ha detto che le lesioni facciali di Kathy hanno assunto una colorazione scura diversa dal solito tipo di fibroma elefantiasico.»

«Non capisco.»

«Nemmeno io. Ma ascolta, Matt, per come la vedo io, forse tu sei ancora sulla pista giusta. Prima di saltare a qualsiasi conclusione, andiamo a Boston e vediamo cos’ha da mostrarci Joe.»

«Dammi cinque minuti per raccogliere le idee e si parte.»

«Solo fino alla più vicina International House of Pancakes, comunque. Mi è venuta un’improvvisa, insaziabile voglia di frittelle inzuppate di sciroppo di acero.»

«E così sia», borbottò Matt diretto in bagno. «Prima mi ricopre di prioni, poi vuole riempirsi di frittelle. Che genere di donna sarà mai?»

Nikki rimase colpita dalla sua allegra battuta, ma sapeva che la rivelazione di Joe Keller l’aveva colpito. Da ciò che le aveva detto la sera precedente, Matt era deciso a denunciare i dirigenti della società mineraria di Belinda per tutte le scorciatoie prese nel corso degli anni e per tutte le persone che avevano rovinato comportandosi così. Quegli strani casi erano solo il catalizzatore che aveva cercato per distruggerli, la prova che lo smaltimento incontrollato delle tossine organiche stava causando gravi danni biologici. Sarebbe stato, tuttavia, arduo collegare la miniera con l’infezione da prione. In ogni caso, ricordò a se stessa, nulla era ancora certo.

Se vi fossero state delle risposte, Joe Keller le avrebbe trovate.

Matt tornò ben lavato e rasato e molto carino. Si era tolto la felpa Yale e aveva indossato la T-shirt nera e la giacca in tela denim che portava quando era corso nel bosco e l’aveva salvata. A Nikki piacque quel cambiamento, lui era molto più denim che Ivy League.

«Pronta?»

Lei si alzò e gli pose le mani sulle spalle. I suoi occhi trovarono immediatamente quelli di lei.

«Sei stato veramente in gamba e molto coraggioso la notte scorsa», osservò Nikki.

«Se avessi riflettuto su ciò che stavo facendo, con ogni probabilità sarei svenuto.»

«Ne dubito.»

Aveva avuto intenzione di dirgli molto di più, c’erano tante cose che voleva sapere di lui, ma d’improvviso si ritrovò sulle punte dei piedi, le braccia attorno al suo collo.

«Grazie, Matthew Rutledge», sussurrò. «Grazie per avermi salvato la vita.»

Forse aveva sempre saputo che l’avrebbe baciato. Forse, allacciata a lui su quella motocicletta, aveva promesso a se stessa che, fossero sopravvissuti, l’avrebbe baciato, che lui lo volesse o no. Eppure, porre le labbra sulle sue, brevemente e teneramente, fu un’esperienza tanto sorprendente quanto eccitante. Si staccò quel tanto da guardarlo negli occhi, e nei suoi non vide alcun dubbio. Il secondo bacio fu più intenso, più lungo e più appassionato. Le sue braccia muscolose la strinsero, mentre le labbra e la lingua esploravano le sue. Lei fece scorrere le dita sulle sue guance e sul mento. Quando infine si staccarono, riuscì a malapena a stare in piedi.