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«Non ricordo l’ultima volta che ho desiderato così tanto baciare una donna», mormorò lui.

«In questo caso, sono felice di essere arrivata al momento giusto.»

«Molto divertente. In realtà, è stato molto divertente. Sai, non ricordo le esatte parole, ma baciare un paziente non vuole dire violare qualche paragrafo del giuramento di Ippocrate?»

Lei lo baciò di nuovo, questa volta giocosamente.

«Chiamalo rianimazione bocca a bocca», ribatté lei. «Credo che la mia assicurazione malattie questo lo copra.»

Lui lanciò un’occhiata nostalgica al letto, ma non fece nulla per spingerla da quella parte.

«Per quello ci sarà tempo», mormorò lei dolcemente. «Te lo prometto. Ora però abbiamo del lavoro da fare.»

«Lavoro da fare, frittelle da mangiare. Mio Dio, quanto baci bene.»

«Anche tu. Se sei d’accordo, possiamo esercitarci ogni cento chilometri, tanto per perfezionare l’arte un po’ di più.»

«Questo farebbe miracoli per la mia capacità di guida. Oh», soggiunse, «tieni.» Le porse la felpa di Yale. «L’avevo acquistata per te. Grande, ma è l’unica taglia che avevano.»

«Perché Yale?»

«Perché era l’unica che avevano senza qualche stupida versione straniera di una frase inglese, come Sport Duro o Grande Corsa.»

«In ogni caso, tu sei molto più West Virginia che Yale, e detto da me, questo è un complimento.»

«Come mai?»

Lei s’infilò la felpa, quindi lo baciò sulla guancia.

«Perché», rispose, sottolineando con il palmo della mano le quattro lettere, «è qui che mi sono laureata.»

Nattie ed Eli Serwanga vivevano in una modesta casa in un quartiere abitato da bianchi e neri a Evanston, lungo la costa del Lago Michigan, appena a nord di Chicago. Ellen era seduta al tavolo da pranzo, sorseggiava tè con miele e cercava di ricordare l’ultima volta che si era sentita tanto triste. C’era lo stato di cose con Rudy e il senso di colpa e di umiliazione che provava per avere aperto la lettera. La sua situazione, tuttavia, impallidiva alla luce di ciò che avevano sopportato quei due. Mentre parlavano, la sua mente tornava di continuo sull’incredibile resoconto degli orrori della battaglia contro la febbre di Lassa della dottoressa Suzanne O’Connor.

Sulla quarantina, i Serwanga, gentili e generosi con lei, erano chiaramente innamorati, la coppia perfetta per avere e crescere dei figli. Invece non ne avevano e non ne avrebbero mai potuto avere. Ad accrescere la loro tragedia, l’irrefutabile prova che Nattie era responsabile, sebbene non intenzionalmente, della morte di due bambini di otto anni che frequentavano il doposcuola dell’ospedale dove lavorava. Una bella situazione.

«Per favore, Nattie», chiese Ellen, «può dirmi di nuovo quando ha scoperto di essere ammalata?»

Nattie prese un fazzoletto di carta da una scatola mezzo vuota e si asciugò alcune lacrime. Era una bella donna, grande ed espansiva, pelle color ebano, occhi enormi ed espressivi.

«È stato circa due settimane dopo il nostro ritorno dall’Africa», ripeté. «Siamo tornati di martedì e due lunedì dopo ho cominciato ad avere mal di gola. Dieci giorni dopo ero in sala operatoria. Hanno fatto nascere il bambino, ma è nato morto. Hanno cercato poi di salvarmi l’utero, ma l’emorragia era stata troppo violenta.»

Eli, che indossava ancora abito e cravatta da lavoro, si alzò e si pose alle sue spalle per confortarla. Erano andati a trovare i suoi parenti in Sierra Leone e lui ammise di sentirsi in colpa per averla convinta a rimanere una settimana in più, mentre risolveva alcune faccende di famiglia, la settimana durante la quale i medici erano convinti fosse rimasta infetta. Ellen sorseggiò il tè e rifletté sull’impatto del suo fresco senso di colpa.

«Se le mie domande la sconvolgono troppo», disse, «me lo dica.»

«Ce la stiamo cavando», replicò Eli. «Ci piacerebbe, comunque, se potesse dirci dove portano tutte queste sue domande.»

Ellen pose sul tavolo la lista dei passeggeri. Durante il volo da Washington a Chicago era riuscita a troncare i tentativi di conversazione di un venditore di elettrodomestici divorziato da poco e completamente egocentrico, seduto vicino a lei, e aveva esaminato tutti i voli, alla ricerca di combinazioni, passeggeri che si erano trovati su più di un volo con una futura vittima della febbre di Lassa. Ve ne erano almeno sei.

«Ho motivo di sospettare che Nattie sia stata infettata o subito prima o subito dopo avere lasciato la Sierra Leone, o sul volo verso casa.»

«Ma come?» domandò Nattie.

«Non lo so.»

«Vuole dire», chiese Eli, «che sta pensando che qualcuno l’abbia infettata deliberatamente?»

«È su questa possibilità che sto indagando. Vi supplico entrambi di non parlare a nessuno dei miei sospetti, finché non avrò finito la mia ricerca. È una questione di vita e di morte. Potete promettermelo?»

«Sì», risposero all’unisono. «Naturalmente», soggiunse Nattie.

«Grazie. Sto indagando sulla possibilità che qualcuno sul volo verso casa le abbia trasmesso il virus. Nattie, questo è un elenco delle persone che hanno viaggiato con lei da Freetown al Ghana e poi dal Ghana agli Stati Uniti. Uno di questi nomi le dice qualcosa? Come vede, vi sono quarantasei passeggeri nella prima tratta del viaggio, inclusi voi due, e trentasette di loro tra i centosessanta sul volo per Baltimora. Uno di questi nomi le ricorda, per caso, qualcuno?» Nattie scosse la testa.

«Sono passati tre anni», rispose. «Credo inoltre di avere perso un po’ di memoria mentre ero ammalata. Temo di non poterla aiutare. Mi spiace.»

«La tua memoria è perfetta», ribatté Eli. «Questi nomi non significano niente neppure per me. Mi dica, pensa che questa infezione fosse casuale o che mia moglie sia stata scelta?»

Ellen rifletté per un po’ sulla domanda.

«Vuole sapere una cosa, a questo non ho mai pensato.»

Cercò poi le parole per parlare dei dieci casi di febbre di Lassa che si riteneva fossero stati causati da Nattie per via del suo lavoro nelle cucine dell’ospedale, compresi i due che erano deceduti. Nattie le evitò il problema.

«Se qualcuno voleva diffondere l’epidemia, una persona con un lavoro come il mio sarebbe stata perfetta, a patto che sapessero cosa facevo per…»

«Che c’è?» chiese Ellen, notando la strana espressione sul viso della donna.

«Eli, ricordi quell’uomo sul volo dalla Sierra Leone? Quello grosso che si era messo a parlare con me davanti alla toilette? Era anche sull’altro volo.»

«L’uomo bianco?»

«Proprio lui. Vendeva qualcosa. Assicurazioni, credo. Avevi detto che faceva paura.»

«Lo ricordo, sì.»

«Sorrideva e parlava, mi ha fatto un sacco di domande sulla mia vita, mascherandole da gioco, come per far capire che esperto agente assicurativo fosse indovinando particolari su di me.»

Ellen provò una piccola scarica di adrenalina.

«Qualcun altro?» chiese comunque.

«Non mi viene in mente nessun altro.»

Ricordando l’esercizio di memoria che le aveva fatto fare Rudy chiese: «D’accordo, potrebbe darmi un foglio di carta e una penna?»

«Certo.»

Eli le portò parecchi fogli.

«Allora», spiegò Ellen, «io me ne andrò in soggiorno. Nel frattempo vorrei che rifletteste assieme e annotaste tutto ciò che ricordate dell’uomo, il suo aspetto, il suo modo di agire, anche le cose che già m’avete detto. Rilassate la mente e fate libere associazioni. So che è passato tanto tempo, ma fate del vostro meglio. Prendetevi tutto il tempo necessario, e se non siete d’accordo su qualcosa, annotate sia l’uno sia l’altro parere.»

«Faremo del nostro meglio», disse Nattie.

Quindici minuti dopo, i Serwanga avevano esaurito tutto ciò che ricordavano. Richiamarono Ellen in sala da pranzo e, scusandosi, le porsero la loro descrizione.