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Erano passate da poco le dodici del giorno successivo al suo colloquio con Nattie ed Eli Serwanga, seguito, poche ore dopo, da un incontro con un’altra vittima della febbre di Lassa, John Gendron, un insegnante trentasettenne di Baltimora.

Era stata una corsa frenetica, aiutata dagli dei del traffico, ma Ellen era riuscita a prendere il volo da Chicago al Baltimore-Washington International Airport. La sua macchina era parcheggiata al Reagan International, alle porte di Washington, per cui aveva preso a nolo una macchina e aveva raggiunto la casa di Gendron, una modesta casa di città in via Fayette, a parecchi isolati dallo scintillante lungomare di Baltimora.

Prima di rimanere contagiato dal virus di Lassa, Gendron aveva insegnato inglese in una scuola media della città. Erano passati diciotto mesi da quel suo incontro con la morte, ma lui pensava di essere ancora troppo infermo per poter riprendere a insegnare. Il suo udito, calato, a causa della malattia, del 70 per cento in un orecchio e del 100 per cento nell’altro aveva limitato il colloquio di Ellen.

«Ero andato in Sierra Leone a trovare mia sorella che lavora come infermiera per un ente internazionale d’assistenza», aveva spiegato. «Una settimana circa dopo il mio ritorno, non riuscivo più a inghiottire nulla, nemmeno l’acqua, senza che la gola mi bruciasse. Nel giro di tre giorni la febbre mi era salita a 40,5 e dal naso e dal retto continuavo a perdere sangue.»

Gli occhi dell’uomo avevano cominciato a luccicare ed Ellen aveva capito che, per quanto gentile fosse stato a invitarla a casa sua, quella conversazione era per lui estremamente dolorosa.

«Signor Gendron, mi cacci pure, se tutto questo è troppo duro per lei», aveva detto. «Vivo abbastanza vicino da poter venire a trovarla un’altra volta.»

«No, no, sto bene. Lei mi ha promesso di dirmi su cosa sta lavorando.»

«E lo farò», aveva confermato Ellen. «Allora, verso la fine della seconda settimana ero caduto in delirio e mi hanno ricoverato. Loro… loro hanno dovuto togliermi l’intestino per evitare che morissi dissanguato. Anche così, c’è mancato poco che morissi. Sono divorziato e vivo da solo, per cui mia sorella è tornata dalla Sierra Leone e si è presa cura di me per due mesi. La colostomia è un souvenir del mio viaggio in Africa.»

Potrebbe essere il souvenir del volo di ritorno, aveva pensato Ellen. «Continui.»

«Per quanto ne so», aveva proseguito lui con voce piatta, «ho contagiato sei miei studenti, più mio figlio e uno dei suoi amici. L’amico l’ha superata, mio figlio Steven e due dei miei studenti, non sono stati altrettanto fortunati.»

Oh, no.

«Mi spiace tanto.»

«Era il mio unico figlio. Ogni giorno vorrei essere morto io e prego che ciò accada presto.»

«Ho avuto anch’io tragedie personali», aveva ammesso Ellen. «Ridare un senso alla vita è terribilmente difficile. Psicoterapia e tempo. È tutto ciò che posso dirle. Terapia e tempo e aiutare gli altri.»

«Grazie.»

Ancora una volta, Gendron aveva assicurato a Ellen che poteva continuare.

«C’è qualcosa di insolito che ricorda del volo di ritorno negli Stati Uniti?» aveva chiesto, sforzandosi di evitare domande che avrebbero potuto influenzare la sua risposta.

«È stato un volo tranquillo. Tuttavia, ho conosciuto un individuo strano sulla tratta da Freetown a Londra, se è questo che intende.»

«Proprio così.»

«Era un ingegnere americano, interessante e molto socievole. Specializzato nell’ispezionare ponti, credo abbia detto.»

Ellen aveva stretto i braccioli della sedia. «Me lo può descrivere?»

«Credo di sì, anche se la mia memoria non è più tanto buona da…»

«Faccia del suo meglio», l’aveva interrotto Ellen, decidendo di non proporgli l’esercizio di scrittura di Rudy.

«Prima di tutto, era grande. Non solo alto, ma grosso, come un giocatore di football. I capelli erano biondicci e portava occhiali spessi con una montatura pesante.»

«Nient’altro?»

«Non mi viene in mente nulla… a parte, aspetti, aveva una cicatrice, una strana cicatrice proprio sopra il labbro.»

Tombola!

Con qualche suggerimento da parte di Ellen, Gendron aveva ricordato anche di essere stato urtato dall’uomo mentre aspettavano in coda all’aeroporto di Gatwick. «Era inciampato, credo, e mi è caduto addosso. È stato come venire investiti da un treno. Siamo finiti a terra entrambi.»

Dopo avere strappato anche a Gendron la promessa del silenzio, Ellen gli aveva spiegato il suo interesse per i casi di febbre di Lassa e per l’uomo con la cicatrice. Era poi tornata al Reagan Airport dove aveva ripreso la Taurus. Era arrivata alla casetta di Rudy dopo le due del mattino e si era sentita sollevata nel vedere che non l’aveva attesa in piedi.

Ora sedeva nel soggiorno e guardava lo special sull’Omnivax, inspirando il rustico profumo del suo tabacco da pipa che aleggiava nell’aria. Il merlot stava gradualmente rinforzando la sua decisione di parlargli. Rudy era nello studio al piano superiore, riflettendo sulle liste dei passeggeri, facendo telefonate e mostrandosi come sempre una roccia di sostegno per una donna che lui considerava una buona amica, una donna che aveva appena scoperto che lui l’aveva amata, escludendo così tutte le altre, per quasi quarant’anni.

Come dirgli ciò che aveva fatto? E, cosa forse ancora più importante, quali sensazioni le aveva procurato ciò che lui aveva scritto? Era impossibile rispondere alla prima domanda senza essere pronti a rispondere sinceramente alla seconda.

Ellen bevve un altro bicchiere di vino. Questo è l’ultimo, decise, tre bicchieri erano più che sufficienti. O erano stati quattro? In ogni caso i bicchieri non erano poi tanto grandi.

L’Omnivax era chiaramente diventato il fiore all’occhiello della campagna presidenziale dei Marquand. Mancavano solo poco più di due mesi alle elezioni e la fazione del presidente stava sborsando notevoli somme di denaro per fare arrivare al grande pubblico il suo messaggio di assistenza, progresso e impegno per le promesse fatte durante la campagna. Il documentario si era inizialmente concentrato sulle vaccinazioni in generale e ora era passato all’Omnivax. Il narratore, al momento invisibile, era un divo del cinema con una voce che ispirava fiducia e irradiava sincerità. James Garner? Donald Sutherland? Ellen non andava spesso al cinema né guardava tanto la televisione da riconoscerla con certezza.

«E così», stava dicendo la voce, «si stima che questo potente vaccino potrà prevenire nel corso del prossimo anno dai cinquanta ai sessantamila casi di infezioni potenzialmente letali. Sono onorato di presentarvi la first lady degli Stati Uniti, la signora Lynette Lowry Marquand.»

Lynette Marquand iniziò a parlare, mentre girellava per il reparto pediatrico di un ospedale.

«Alle tre del pomeriggio del due settembre, tra due giorni quindi, una neonata di quattro giorni riceverà la prima dose ufficiale di Omnivax. Io sarò presente a quell’importante evento, come pure il ministro della Sanità, la dottoressa Lara Bolton, che somministrerà il supervaccino usando questo aggeggio pneumatico, creato appositamente per questo scopo.» Sollevò una piccola pistola che assomigliava a una pistola a canna corta con bocca appiattita. «Siamo sul punto di presentare il più grande progresso nella medicina preventiva della nostra storia, un progresso che potrebbe segnare l’inizio della fine delle malattie infettive come le conosciamo…»

«Che ne dici del mercurio thimerosal che milioni di bambini hanno ricevuto assieme al vaccino?» chiese Ellen ad alta voce, rendendosi conto nello stesso istante che la sua voce era roca e il bicchiere vuoto. «Che ne dici dell’autismo? Che ne dici delle crisi epilettiche e dei danni cerebrali e delle morti improvvise? Che ne dici dell’asma e dell’incapacità di apprendimento e dell’ADHD? E che ne dici dell’uomo che sta volando in giro seminando malattie e morte per vendere il suo dannato vaccino? Che ne dici di tutti quelli?»