«Qualsiasi cosa abbiano usato, sta svanendo», disse Nikki. «Matt, dobbiamo controllare quell’armadio.»
«Non lasciatemi», gridò Sid. «Non riesco a muovere le gambe.»
«Torneremo.»
Nikki lo adagiò a terra e prese Matt sottobraccio mentre aggiravano il cumulo di bidoni, molti dei quali avevano versato il loro contenuto oleoso sul pavimento in pietra. Tanti, comunque, soprattutto quelli alla base della piramide, erano intatti.
«Secondo te, come mai Grimes li ha messi al tappeto con un’iniezione invece che con una pallottola in testa?» chiese Nikki.
«Penso che volesse proteggersi nel caso qualcuno avesse scavato qui dentro e ci avesse trovati. Non ci sarebbe stata alcuna prova che eravamo stati tutti uccisi. Un gruppo che visitava la miniera, forse, o degli ambientalisti tanto sfortunati da trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Diavolo, le miniere e le esplosioni sono come la festa del Ringraziamento e il tacchino, specialmente questa miniera.»
Il fiume, largo tre metri, scorreva a circa trenta centimetri sotto il pavimento della caverna, dalla loro sinistra verso destra con una discreta corrente. L’attraversavano due piatti ponti con rustici parapetti in legno, ma uno era stato distrutto da parecchi massi di pietra. Il fiume superava l’ostruzione a fatica e l’acqua dietro la diga aveva iniziato a lambire il pavimento della caverna. Il secondo ponte sembrava transitabile.
«Se questo posto comincia a riempirsi d’acqua», osservò Matt, «cosa pensi succederà prima? Soffocheremo o annegheremo?»
«Troveremo una via d’uscita, dottor Rutledge», rispose lei con tono fermo. «Ogni altro ragionamento negativo da parte sua verrà affrontato con la massima severità.»
«Allora ti ripropongo la domanda in altro modo: pensi sia meglio concentrare le nostre energie e usare l’ossigeno per uscire di qui o per stabilizzare le condizioni dei feriti?»
«Saresti capace di ignorarli?»
«Probabilmente no.»
«Perché hai posto questa domanda, allora?»
«Speravo che tu mi avresti convinto a farlo.»
L’armadio, in plastica dura e grigia, era dove aveva detto Sid. Fissato alla parete rocciosa, era alto più di due metri e altrettanto largo e profondo una cinquantina di centimetri. Conteneva quattro potenti lanterne a batterie, tre maschere antigas, mascherine chirurgiche, ogni genere di attrezzi, corde, nastro da idraulico, una tuta contro l’esposizione a sostanze chimiche e una grande e ben fornita cassetta di pronto soccorso.
«Si comincia», disse Matt, infilandosi sul viso una mascherina e porgendone un’altra a Nikki. «Sei pronta a giocare al dottore?»
«Pronta.»
Provarono le lanterne, tutte funzionanti, e le portarono via assieme alla cassetta del pronto soccorso. Ora poterono capire meglio lo stato della grotta. Le due entrate, a circa trenta metri di distanza una dall’altra, erano completamente bloccate da un enorme ammasso di detriti. La maggior parte dei bidoni pieni di rifiuti tossici, sebbene non più impilati a piramide, era ancora nel centro della caverna. Il soffitto, otto metri sopra di loro, reggeva e lasciava loro una bella quantità d’aria, anche se pesantemente contaminata dalle esalazioni.
«Chissà cosa sta facendo ai nostri polmoni questa roba», disse Matt.
«Forse, in questo momento, non è di questo che dobbiamo preoccuparci maggiormente. Da dove vuoi iniziare?»
«Il trauma alla gola di Colin Morrissey mi sembra un potenziale problema, ma prima assicuriamoci che non ci siano altre persone in giro, e continuiamo a cercare Hal, Vinny e Fred. Poi spostiamo tutti in una sola zona, vediamo chi è il più grave e facciamo tutto ciò che possiamo fare.»
La polvere e i detriti si stavano posando, ma ogni loro passo sollevava pennacchi di polvere. Le grida di dolore erano aumentate e con esse il senso di urgenza. Matt e Nikki posero l’attrezzatura vicino alla ragazza, che stava facendo alcuni movimenti incerti. Poi, ognuno con una lanterna in mano, percorsero la caverna alla ricerca di corpi.
«Laggiù!» esclamò Matt dopo solo pochi metri.
Fred Carabetta era disteso bocconi semicosciente, la faccia girata da una parte, bloccato sotto un cumulo di pietre da metà schiena fino ai piedi. Dall’orecchio sinistro colava sangue e ciò che riuscirono a vedere del suo volto assomigliava a quello di un pugile professionista ridotto a mal partito.
«Aiuta… temi… Aiuta… temi», ripeteva gemendo.
«Fred, sono Matt. Mi può sentire?»
«La… sento. Mi… aiuti.»
«Che facciamo, cerchiamo di tirarlo fuori ora o ispezioniamo in giro alla ricerca di altri?» domandò Nikki.
«Abbiamo bisogno di più mani.»
«Matt, non possiamo fare l’impossibile.»
«Cerchiamo allora di liberarlo. Fred, ora le togliamo tutte queste pietre di dosso.»
La pila di sassi che immobilizzava Carabetta era molto più piccola e più facile da spostare di quella che aveva paralizzato la guardia, eppure, dopo avere rimosso una quantità sufficiente di pietre per poterlo liberare, stavano sudando e respiravano a fatica.
Carabetta urlò di dolore quando lo rovesciarono sul fianco. Nikki e Matt sussultarono davanti a ciò che videro. I pantaloni della tuta nera di Carabetta e la camicia erano inzuppati di sangue, la maggior parte del quale usciva da una ferita a destra dell’inguine.
«Con tutte queste pietre, qui non c’è neppure spazio per inginocchiarsi», borbottò Matt. «Proviamo a trasportarlo vicino agli altri e a curarlo là.»
«Farò quel che posso.»
«Fred, ora la sposteremo laggiù, dove avremo più spazio per assisterla.»
Muoverlo non fu un’impresa semplice. Alla fine ci riuscirono trascinandolo poco alla volta per i polsi, oltre la ragazza che stava muovendo le estremità, nella zona dove giacevano la guardia di sicurezza e l’uomo con la sindrome di Belinda. Esausti per lo sforzo e per dover respirare attraverso la mascherina chirurgica, rimasero fermi per almeno un minuto, le mani sulle ginocchia, respirando a bocca aperta.
«Basta gelati per Fred», disse ansimando Matt.
In quell’istante, con un urlo spettrale, una figura si lanciò dall’oscurità, dall’alto di un ammasso di detriti, su Nikki, facendola cadere all’indietro, distruggendo una delle lanterne.
Nikki gridò dal dolore mentre l’aggressore, una donna robusta, le saltava addosso, le mani alla gola. Grazie alla luce restante, Matt riuscì a distinguere il fitto grappolo di neurofibromi che coprivano la faccia della donna. Si tuffò su di lei, la colpì alla spalla con la sua spalla e la placcò sul pavimento. Grugnendo e sputando, la donna cercò di colpirgli il viso e le braccia, riuscendo ad assestare alcuni pugni efficaci. Matt la colpì al volto, prima con la mano aperta, poi con il pugno. Era la prima volta che colpiva qualcuno in quel modo in vita sua. Sbalordita, la donna crollò all’indietro. Matt le pose un ginocchio sulla gola, le strappò la camicia in cotone e usò una delle maniche per legarle le mani, l’altra per le caviglie. Pre’s’e poi del nastro adesivo dalla cassetta del pronto soccorso e la immobilizzò ancor più efficacemente.
«Tutto bene?» chiese, girandosi verso Nikki.
«La caviglia sinistra», gemette lei. «Ha ceduto quando mi ha colpita.»
«Ti fa male da qualche altra parte?»
«Non troppo.»
Matt s’inginocchiò ed esaminò la lesione. La parte esterna della caviglia iniziava già a gonfiarsi e il malleolo laterale, la sporgenza ossea, presentava una abnorme sensibilità al dolore. Forse l’estremità della fibula non era rotta, ma i legamenti erano di certo strappati. In ogni caso, non poteva più muoversi. Nikki gemette debolmente mentre Matt le bendava la caviglia. Prese poi un sacchetto di ghiaccio chimico monouso e lo fissò alla giuntura con una benda elastica che coprì poi con un’altra.
Con grande sforzo, Nikki si girò sulle mani e le ginocchia.
«Diamoci da fare su Fred», disse. «Non so quanto a lungo resterà vivo.»