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Tutti compresero. Ne furono addolorati, e si sentirono a disagio per alcune ore, ma quando furono tornati a casa, la casa-giusta-per-loro, e furono tornati al lavoro, che era quello-giusto-per-loro, la semplice soddisfazione per la loro vita cancellò il momentaneo dolore per Chris. Dopotutto, Chris aveva infranto la legge. Ed era la legge che li manteneva al sicuro e soddisfatti.

Persino Joe. Persino Joe dimenticò presto Chris e la sua musica. Sapeva di aver agito per il meglio. Ma non riuscì ad immaginare perché un uomo come Chris avesse voluto infrangere la legge, e soprattutto quale legge avesse infranto. Non c’era una legge in questo mondo che non fosse intesa a rendere felice la gente… e non c’era alcuna legge che Joe potesse pensare anche solo lontanamente di voler infrangere.

Eppure. Una volta Joe si avvicinò al pianoforte, sollevò il coperchio e suonò tutti i tasti. E quando lo ebbe fatto, appoggiò il capo sulla tastiera e pianse, pianse perché sapeva che quando Chris aveva perso quel piano, aveva perso anche le sue dita, così da non poter mai più suonare… come se Joe avesse perso il suo bar. E se mai Joe avesse dovuto perdere il suo bar, la vita non avrebbe più avuto alcun significato.

Per quel che riguardava Chris, qualcun altro cominciò a frequentare il bar, guidando lo stesso furgone delle consegne, e nessuno vide mai più Chris in quella parte del mondo.

Terzo Movimento

— Oh, che meravigliosa mattina! — cantò uno della squadra addetta alla costruzione della strada, un tipo che aveva visto Oklahoma! per quattro volte nella sua città.

— Culla la mia anima nel grembo di Abramo! — cantò un altro che aveva imparato a cantare quando la sua famiglia era solita riunirsi a suonare la chitarra.

— Guidami, luce gentile, nel buio che mi circonda! — disse uno della squadra che aveva fede.

Ma un altro di essi, l’uomo senza mani che reggeva i segnali che indicavano al traffico di Fermarsi o di Rallentare, ascoltava, senza mai cantare.

— Perché non canti mai? — chiese l’uomo che amava Rodgers e Hammerstein. Lo chiedeva a tutti, prima o poi.

E l’uomo che chiamavano Sugar si limitò a scrollare le spalle: — Non mi va di cantare — diceva, quando diceva qualcosa.

— Perché lo chiamano Sugar? — chiese una volta un nuovo arrivato. — A me non sembra per niente dolce.

E l’uomo che aveva fede rispose: — Le sue iniziali sono C.H. Come lo zucchero. C H, sai. — E il nuovo arrivato rise. Un gioco di parole stupido, ma quel genere di battute rendevano la vita sopportabile alla squadra addetta alla costruzione della strada.

Non che la vita fosse così dura. Perché anche questi uomini erano stati sottoposti ai test ed avevano il lavoro che più li rendeva felici. Essi erano orgogliosi della pelle bruciata dal sole e della fatica che indolenziva i muscoli, e la strada che si allungava e si assottigliava dietro di loro era la cosa più bella al mondo. E così cantavano tutto il giorno, sapendo che non avrebbero potuto essere più felici di quanto lo erano quel giorno.

Tranne Sugar.

Poi arrivò Guillermo. Un messicano tozzo che parlava con un accento marcato; Guillermo ripeteva a tutti quelli che glielo chiedevano: — Posso anche venire da Sonora, ma il mio cuore è a Milano! — e quando qualcuno gli domandava perché (e anche quando nessuno glielo domandava), lui spiegava: — Io sono un tenore italiano in un corpo messicano — e ne dava la prova cantando ogni nota scritta da Verdi e da Puccini. — Caruso non era nessuno — si vantava Guillermo. — Acoltate questo!

Guillermo aveva dei dischi e cantava insieme ad essi, e quando lavorava con la squadra si univa a qualunque canzone e cantava in coro oppure intonava un assolo ben al di sopra della melodia, con una ruggente voce tenorile che scoperchiava i tetti e riempiva le nuvole. — Io so cantare — diceva Guillermo, e subito gli altri della squadra rispondevano: — Maledettamente vero, Guillermo! Canta ancora!

Ma una sera, Guillermo volle essere sincero e raccontò la verità. — Ah, amici miei, io non sono un cantante.

— Che cosa dici? Certo che lo sei! — fu la risposta unanime.

— Sciocchezze! — gridò Guillermo con tono teatrale. — Se sono davvero un grande cantante, perché non mi avete mai visto registrare delle canzoni? Eh? Questo sarebbe un grande cantante! Sciocchezze! I grandi cantanti sono allevati per essere dei grandi cantanti. Io sono solo un tipo a cui piace cantare, ma che non ha talento! Io sono un tipo a cui piace lavorare nei cantieri stradali con uomini come voi e cantare a squarciagola. Ma all’opera non potrei mai cantare! Mai!

Non lo disse con tristezza. Lo disse con fervore, con sicurezza: — Io appartengo a questo luogo! Posso cantare per voi, che vi divertite ad ascoltarmi! Posso cantare in sintonia con voi quando sento l’armonia nel mio cuore. Ma non pensate che Guillermo sia un grande cantante, perché non lo è!

Era una serata di sincerità ed ognuno spiegò perché era felice nella squadra di costruzione delle strade e perché non avrebbe voluto essere in nessun altro luogo. Tutti, tranne Sugar.

— Avanti, Sugar. Non sei felice qui?

Sugar sorrise. — Sono felice, mi piace qui. Questo è un buon lavoro per me. E mi piace sentirvi cantare.

— E allora perché non canti con noi?

Sugar scosse il capo. — Non sono un cantante.

Ma Guillermo lo guardò con aria saputa. — Non sei un cantante! Ah! Non sai cantare. Un uomo senza mani che rifiuta di cantare non è un uomo che non sa cantare, eh?

— Che cosa diavolo vuoi dire? — chiese l’uomo che amava le canzoni popolari.

— Voglio dire che quest’uomo che chiamate Sugar è un’impostore. Non è un cantante! Guardategli le mani. Non ha più le dita! Chi taglia le dita agli uomini?

La squadra non cercò di indovinare. C’erano molti modi in cui un uomo poteva perdere le dita e nessuno di questi erano affari loro.

— Ha perso le dita perché ha infranto la legge, e gli Osservatori gliele hanno tagliate! Ecco come un uomo perde le dita! Che cosa faceva con le dita, che gli Osservatori volevano che non facesse più? Stava infrangendo la legge, vero?

— Basta — disse Sugar.

— Come vuoi — rispose Guillermo, ma per una volta gli altri non rispettarono l’intimità di Sugar.

— Raccontacelo — chiesero tutti. Sugar uscì dalla stanza.

— Raccontacelo — e Guillermo si decise. Sugar doveva essere stato un Compositore che aveva infranto la legge, e a cui era stato impedito di comporre la musica. Il solo pensiero che un Compositore lavorasse nella loro squadra, addirittura uno che aveva infranto la legge, riempì gli uomini di meraviglia. I Compositori erano rari, ed erano tra gli uomini e le donne più venerati.

— Ma perché le dita?

— Perché — disse Guillermo — deve aver tentato ugualmente di fare musica. E quando si infrange la legge una seconda volta, ti viene tolto il potere di infrangerla una terza. — Guillermo parlava con un tono molto serio, e cosi agli uomini della squadra di costruzione la storia di Sugar suonò maestosa e terribile come un’opera. Si affollarono nella camera di Sugar e lo trovarono con lo sguardo fisso sulla parete.

— Eri un Compositore? — chiese l’uomo che aveva fede.

— È vero, Sugar? — chiese l’uomo che amava Rodgers e Hammerstein.

— Sì — disse Sugar.

— Ma Sugar — disse l’uomo che aveva fede, — Dio non può volere che un uomo smetta di fare musica, anche se ha infranto la legge.

Sugar sorrise. — Nessuno l’ha chiesto a Dio.

— Sugar — disse Guillermo — siamo nove in questa squadra, nove, e non c’è nessun altro per molte miglia qui intorno. Tu ci conosci, Sugar. Giuriamo sulla tomba di nostra madre, tutti noi, che non lo diremo mai ad anima viva. Perché dovremmo? Sei uno di noi! Ma canta, maledizione, canta!