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Il suo sarcasmo era come acido. «Signor Cleg,» disse, avanzando nella stanza. Io mi girai sulla sedia, voltai la faccia contro il muro e incrociai le gambe. Incominciai a pasticciare col mio tabacco. «Signor Cleg,» disse lei, «vorrei sinceramente poterle fornire un tavolo da biliardo e una biblioteca, ma questa non è una casa ricca, e dobbiamo cavarcela da soli… Mi piacerebbe molto, signor Cleg, che altri residenti uscissero a passeggiare come lei.»

Seduto di sbieco sulla sedia, con la faccia sempre voltata, mi irrigidii. Bruciavo per l’umiliazione. Dalle mie dita tremanti, frammenti di tabacco si sparsero sui pantaloni. Passarono parecchi istanti. Uno stanco sospiro; poi, dalla mia tormentatrice: «Signor Cleg, quante camicie ha addosso? E il nostro patto?» Patto! Ero completamente bloccato, a questo punto. Rinunciai allo sforzo di arrotolarmi una sigaretta. Le mie mani rimasero immobili, una cartina fra le dita della sinistra, una presa di tabacco in quelle della destra. Silenzio. Cosa stava facendo? Poi, da una delle anime morte: «Se n’è andata, signor Cleg.» E io lentamente mi rilassai, anche se le dita continuarono a contorcersi almeno per un altro quarto d’ora.

Solo quando uscii sano e salvo dalla porta d’ingresso le mie condizioni di spirito incominciarono a risollevarsi. Quella donna è un mostro! La scacciai dalla mia mente, ero troppo di buon umore per lasciare che mi influenzasse negativamente, e ben presto mi ritrovai ancora a ribollire di esuberanza. Per qualche ragione, mi sentivo riluttante a sedere vicino al canale e mi chiedevo, come faccio tutte le mattine, se avrei riattraversato il ponte e visitato Kitchener Street. Ma quel giorno non rividi Kitchener Street, né andai al canale; mi recai invece al fiume, perché sapevo che sarei soltanto diventato morboso se avessi guardato la pioggia punteggiare la superfìcie nera del canale — perché la pioggia porta idee, l’ho imparato in Canada, dove piove quasi sempre. Camminai lungo l’alzaia, quindi salii sulla strada principale — come tutto sembrava muoversi velocemente nella pioggia! — l’attraversai, poi proseguii per alcune stradine fino a un vicolo fra i depositi, e dopo fino a una rampa di scalini rovinati che scendevano al fiume. Oh, il fiume! La grande corrente animata, il vecchio Padre Tamigi nel giorno tutto grigio! Sull’altra riva, le gru di Rotherhithe si volgevano verso di me nella nebbia come dita o insetti. Mentre scendevo allegramente, sui gradini più bassi c’era una fanghiglia verde insidiosa; uno degli scalini era quasi smangiato e gli altri sbriciolati e rotti. Ai piedi della scala, l’acqua gorgogliava e turbinava, grigio-verde come il cielo, la spessa e bassa coltre di cielo che sputacchiava pioggia e mi infradiciava; il berretto era ormai una roba bagnata e inutile, così lo buttai nel fiume e lo guardai andarsene. Adoro l’umidità di un giorno così, adoro l’umidità e il buio e i cieli simili a spesse coperte grigie, perché solo in queste giornate mi sento a casa mia nel mondo.

In uno stato d’animo esilarato, tornai ad attraversare la strada principale (ci furono colpi di clacson e sconcerto nel traffico, perché ebbi uno dei miei momenti di assenza, mi scollegai), poi fui di nuovo sull’alzaia. Vicino alla mia panchina, lasciai il canale e impulsivamente risalii fino a Omdurman Close, finché mi trovai sul ponte che scavalcava la linea ferroviaria. Lontani sotto di me i binari luccicavano, ragnatele di ferro bagnato, ma nessun diavolo poteva spaventarmi con un tempo del genere, quello era il mio giorno! Sul ponte, dunque, feci un’estatica doccia, perché la pioggia scendeva forte adesso — e all’altra estremità mi fermai e guardai gli orti che si stendevano in basso, striscia dopo striscia, in una specie di nebbia, ciascuno recintato, sorvegliato dal suo casotto. Niente, niente era cambiato qui! Scesi lungo il sentiero, benché fosse fangoso e pieno di pozzanghere, finché mi ritrovai all’ingresso dell’orto di mio padre.

Niente era cambiato. Aprii il cancello e proseguii sul sentiero; ai lati, piante di patata abbattute e prostrate come cortigiani, mentre la pioggia scrosciava sul terreno e formava pozze nei solchi fra le file. Dietro il casotto, sulla destra, il mucchio del compost, una roba zuppa quel giorno, con i gusci e le bucce che si univano a formare una fanghiglia scivolosa e feconda — e lì davanti a me, adesso, il casotto vero e proprio, ripulito dalla pioggia. Non avvertivo alcun orrore provenire dalla costruzione, nessuna delle vertiginose ondate di terrore che mio padre fece scaturire da quel luogo e che, a un certo punto, arrivarono a spingerlo ai limiti della follia — niente di tutto questo, né sentivo orrore mentre mi giravo di nuovo verso l’orto, neanche lì: c’era pace nella terra, perché la pioggia porta pace ai vivi e ai morti, a tutte le cose sotto la terra e sotto l’acqua, tutte riposano nella pioggia. Mi inginocchiai nel campo delle patate e appoggiai la testa al suolo; fu allora che una voce disse: «Ehi? Cosa crede di fare?»

«Ehi! Ehi! Ehi ehi ehi ehi ehi!» riecheggiò una figura barbuta con berretto e impermeabile dall’altra parte della recinzione, mentre mi voltavo incespicando verso la fonte. «Ehi! Ehi! Ehi ehi ehi ehi ehi!»: i diavoli ripresero il grido, maledetti loro, maledette le loro sporche anime d’inferno! Oh, fuggii, tornai scivolando e piangendo sul sentiero e sul ponte col clamore delle loro sporche voci che mi risuonava nelle orecchie, finché non fui di nuovo sulla panchina, un relitto bagnato e ansimante: dovevo saperlo, mi dissi, dovevo saperlo, non si fermano mai, devo giocare d’astuzia, devo essere come una volpe.

La signora Wilkinson mi vide rientrare, fradicio com’ero, e non fu per niente felice di scoprirmi così bagnato. Ma io la ignorai mentre salivo faticosamente le scale, incurante anche delle anime morte che emergevano dal salotto per scrutare il mio involucro gocciolante e assediato. Sedetti sul letto coi gomiti sulle ginocchia, un triste e dispiaciuto ragno d’acqua, davvero — e poi lei entrò pesantemente senza bussare, piena di zelo matronale. «Fuori da quella roba bagnata, signor Cleg,» disse, «non vogliamo che ci muoia di freddo.»

A questo punto, ero completamente debilitato: la mia esuberanza e la mia energia evaporate, svanite come la nebbia. Mi alzai piuttosto faticosamente e le permisi di incominciare a slacciarmi i bottoni. Dopo un momento, mi sentii più responsabile, le allontanai le dita e continuai l’operazione da solo. Lei uscì. «Un bagno caldo per lei, signor Cleg,» gridò. «Non credevo che si sarebbe bagnato fino alle ossa.» La sentii nel bagno in fondo al corridoio che canticchiava fra sé mentre l’acqua scendeva tossendo e sputacchiando dai vecchi rubinetti. Quando fui pronto, mi avvolsi rabbrividendo nella vecchia vestaglia scolorita che avevo dai tempi delle colonie e mi avviai lungo il corridoio.

È una vecchia casa, quella della signora Wilkinson, con un vecchio bagno; la vasca è una cosa enorme, di ghisa, con i piedi ad artiglio, e si trova sotto un lucernario spiovente su un pavimento di piastrelle bianche e nere a forma di losanga. Quando i rubinetti sputano i loro torrenti caldi, la stanza si riempie subito di vapore, ed era così nel momento in cui io comparii sulla soglia. La signora Wilkinson stava china sulla vasca, una mano sul bordo e l’altra che saggiava l’acqua. Voltando la testa verso la porta, mi guardò per un attimo o due, poi si rialzò. «Venga, signor Cleg,» disse, «vediamo di riscaldare le sue ossa gelate.»

Appesi l’asciugamano al gancio dietro la porta e mi avvicinai cautamente. In questa casa l’acqua ha sempre una leggera tinta rossiccia: ossido di rame nei tubi, immagino. La signora Wilkinson era in piedi vicino al bagno di acqua marrone fumante, con le mani protese a ricevere la mia vestaglia. Naturalmente io arretrai. «Non sia timido, signor Cleg,» mi invitò, «ho visto un sacco di uomini in questo bagno.»