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La domenica mattina guardavo spesso mio padre che andava al terreno dove aveva l’orto. Lo accompagnavo fuori dalla porta sul retro; nell’aria fredda e nebbiosa del primo mattino, il suo fiato diventava fumo mentre si infilava il berretto e si stringeva una sciarpa alla gola; poi si accosciava per mettersi dei legacci intorno alle caviglie in modo che i pantaloni non finissero nella catena della bicicletta. La bicicletta era appoggiata al casotto del gabinetto; la spingeva nel cortile, attraverso il cancello sul vicolo, e poco dopo lo vedevo allontanarsi pedalando.

Stava sulla bicicletta in modo rigido, eretto, mio padre, e ancora adesso riesco a vederlo, nelle mattine d’autunno, con la vecchia giacca lisa che usava per il giardinaggio e il berretto in testa, che scivola nelle strade deserte e prova una sorta di tetro piacere nel silenzio fresco e fumoso e nella propria solitudine in esso. Oltrepassava il lattaio, il cui cavallo sbuffava e batteva il suolo prima di rilasciare sul selciato un mucchio di palle di sterco fumante color paglia, e mentre sbuffava grandi nuvole di fumo uscivano dalle sue frogie nerastre e distese. A volte mio padre scendeva dalla bicicletta e raccoglieva lo sterco fresco in un sacchetto di carta, per aggiungerlo più tardi al mucchio del compost. Poi continuava nelle strette strade silenziose in direzione sudovest, verso i gasometri che, avvolti nella leggera nebbia mattutina, raggiungevano una specie di grandiosità e di mistero, malgrado l’odore. Pedalava al di là del canale, e poi sull’interminabile salita e lungo Omdurman Close, fino ai bastioni della ferrovia. A metà del ponte della ferrovia, quando riusciva a vedere gli orti, smontava e si concedeva una pausa per arrotolarsi una sigaretta. Grazie a questa piccola cerimonia riusciva ad assaporare per qualche dolce secondo in più la prospettiva del giorno che lo attendeva.

Non sono ancora tornato a Kitchener Street; mi mette in apprensione l’idea di attraversare il canale e di rivedere quei mattoni anneriti, imbevuti nella mia memoria dei suoni e degli odori della tragedia che lì avvenne. Un giorno dovrò farlo, lo so, ma non ancora, non ancora. Ho invece percorso la salita fino a Omdurman Close, la settimana scorsa, e sono perfino andato sul ponte sopra i binari, aggrappandomi con forza alle grate. Da un punto esattamente a metà del ponte — non osavo guardare giù l’intrico di binari lontani — ho visto che gli orti erano sempre lì, al di là dei bastioni, e apparentemente erano ancora coltivati, perché il fumo del falò di un giardiniere saliva nell’aria turbolenta di quel ventoso pomeriggio di ottobre. Avevo appena deciso di andare oltre e vedere cosa ne era stato dell’orto di mio padre e del casotto che lui ci aveva costruito in fondo, quando un treno merci passò stridendo selvaggiamente sotto di me e, in preda a una specie di panico, io mi trascinai zoppicando per la strada da cui ero venuto; pochi minuti dopo, ero debolmente aggrappato a un lampione col cuore che mi balzava nel petto e le orecchie che risuonavano per il frastuono del treno, un rumore terribile che per qualche secondo si era trasformato nell’urlo di derisione di una tribù di diavoli invisibili, così sembrava! Entro in confusione facilmente, in questi giorni.

Sono anch’io una specie di giardiniere, vedete. Anzi, il giardinaggio è probabilmente l’unica cosa buona che mi è venuta dagli anni passati all’estero: ho imparato a coltivare verdure, anche se non ho mai sviluppato la passione di mio padre. Per lui, quella sottile striscia di terra non era solo una fonte di verdura fresca: credo che fosse una specie di santuario, una specie di rifugio spirituale. Dopo aver attraversato il ponte, scendeva lungo lo stretto sentiero sui bastioni, oltre i campi degli altri giardinieri, lavoratori come lui che stavano già zappando o scavando, o magari semplicemente passeggiando su e giù fra i solchi con le mani intrecciate dietro la schiena e la fronte aggrottata, a contemplare le loro patate o i loro fagioli o le loro carote, o i cavoli o i piselli. «Buongiorno, Horace,» mormoravano, mentre mio padre guidava lentamente la bicicletta sul sentiero. Questi uomini potevano essere silenziosi o con la mente altrove, apertamente ansiosi per la lentezza della crescita, o per la ruggine, o per le erbacce, o per un’estate piovosa, o per i danni provocati dai corvi, ma essi erano in pace, come sono stato in pace io in un orto: erano felici.

La prima ora della domenica mattina era il momento in cui mio padre rifletteva sullo stato delle cose nell’orto, ed era un’ora da cui ricavava una messe di tranquilla felicità, incomprensibile a chiunque non fosse un giardiniere. Quell’ora, nell’aria frizzante del mattino, con la rugiada ancora sulle foglie dei cavoli, era in un certo senso la ragione per cui lavorava: egli sperimentava allora un senso di soddisfazione che non credo provasse altrove nella sua esistenza limitata e costretta. Ispezionava, valutava, saggiava il terreno con la punta di uno stivale, si sedeva sui talloni per esaminare una pianta o l’altra, posava una foglia venata e tenera sul palmo calloso della mano e la scrutava attraverso gli occhiali. Poi, dopo un po’, andava verso il suo casotto, una struttura semplice, quadrata, fatta con legno di scarto e carta catramata, e lì, nell’oscurità piena di ragnatele, appendeva la giacca e prendeva gli attrezzi di cui aveva bisogno e incominciava la giornata di lavoro. Si tratta di un semplice schizzo dell’orto di mio padre (ne parlerò ancora al momento opportuno), ma fu grazie a questa stretta striscia di terra e al suo casotto che egli riuscì a ricavare all’interno del più ampio quadro della sua vita una zona in cui godere di autonomia e di cameratismo — ed era questo che rendeva la vita tollerabile per lui, e per altri come lui. Molto concretamente, l’orto era il centro spirituale e l’essenza di una vita che, per il resto, era priva di amore, monotona e grigia.

* * *

Non vi ho ancora detto neanche il mio nome! È Dennis, ma mia madre mi chiamava sempre «Spider». Sono un tipo cadente e fragile, in realtà — i vestiti hanno sempre avuto l’aria di sbattermi addosso come delle vele, come lenzuoli o sudari: mi capita di scorgerli con la coda dell’occhio mentre vagabondo in queste strade deserte, e sembrano sempre vuoti, senza padrone, per il modo in cui la flanella ondeggia e si muove su di me, come se io non fossi nulla e gli abiti fossero appesi solo a un’idea di uomo e l’uomo stesso fosse altrove, nudo. Queste sensazioni scompaiono quando raggiungo la mia panchina, perché lì sono ancorato: ho un muro dietro di me e dell’acqua davanti, e finché non guardo i gasometri va tutto bene. Ma ho avuto un piccolo shock, ieri, perché ho scoperto che non mi va più bene niente. L’ho notato per la prima volta quando mi sono alzato dalla panchina: i pantaloni mi arrivavano a malapena alle caviglie, e dall’estremità delle maniche i polsi mi uscivano per una lunghezza assurda, come bastoni, prima di fiorire improvvisamente in queste mie mani lunghe e molli. Quando giunsi a casa, tutto sembrava tornato alla normalità, e mi venne in mente che il problema poteva essere nel mio corpo, invece che nei miei vestiti. Naturalmente non penserei mai di parlare di queste cose alla signora Wilkinson. Ha già chiarito le sue idee sull’argomento: mi ha proibito di mettere più di un capo di vestiario per tipo alla volta, non più di un paio di pantaloni, di una camicia, di un maglione ecc, anche se naturalmente le disubbidisco, in questo, perché mi piace indossare tutti i vestiti che mi è possibile, lo trovo rassicurante, e da quando sono tornato dal Canada di rassicurazioni semplicemente non ne ho mai abbastanza. Forse tutta la faccenda è stata solo una sorta di errore percettivo: di quando in quando ho avuto questo tipo di problema in passato.

Sono un uomo molto più alto di mio padre, ma per altri aspetti gli assomiglio. Lui era peloso e miope; portava occhiali rotondi, di corno, che lo facevano assomigliare a un gufo. I suoi occhi avevano un aspetto ingannevolmente dolce e acquoso, e nel momento in cui si toglieva gli occhiali si capiva che erano di un incredibile colore azzurro pallido. Ma io ho visto quei suoi occhi incendiarsi per l’ira e, quando ciò avveniva, non c’era proprio niente di dolce e di acquoso in lui, e molto spesso io venivo portato giù nella carbonaia e assaggiavo l’estremità della sua cintura. Non che lasciasse mai vedere ad altri la sua ira, era troppo astuto per questo — ma mia madre e io l’abbiamo provata, non aveva altro modo per sfogarsi, e noi eravamo le uniche persone al mondo più deboli di lui. Mi ricordo che mia madre aveva l’abitudine di dire: «Vai giù al Dog, Spider, e di’ a tuo padre che la cena è in tavola», e allora io sapevo che avrei visto sorgere in lui quella rabbiosa luce pallida. Il Dog era il pub all’angolo di Kitchener Street, il Dog and Beggar. Non era un grosso pub; c’erano quattro sale, il bar, il saloon e due salottini in cui si potevano fare conversazioni private; ciascuna sala era separata dalle altre con pareti di legno in cui erano inseriti dei pannelli di vetro smerigliato. Mio padre beveva nel locale del bar, e io ricordo ancora che quando aprivo la porta venivo immediatamente assalito da un’ondata di suoni e odori: i discorsi degli uomini, i loro scoppi di risa, il fumo denso, la birra, la segatura sulle assi nude, e in inverno un piccolo fuoco di carboni dietro la grata. Sopra al caminetto, ricordo, c’era uno specchio con su un tucano nero e le parole GUINNESS IS GOOD FOR YOU. Io non riuscivo a capire la prima parola, sapevo solo che qualcosa era buono «per te». Non c’era niente di buono per me nel bar del Dog and Beggar: lo scorgevo, la schiena curva, col gomito appoggiato al banco, uno stivale sulla sbarra di ottone che correva all’altezza della sua caviglia; qualcuno diceva: «C’è il figlio di Horace» o: «C’è tuo figlio, Horace», e io lo vedevo voltarsi verso di me, una sigaretta pendente dalle labbra, e nei suoi occhi c’era solo quel freddo disprezzo che nasceva dal fatto di dover ricordarsi, di nuovo, della sua famiglia e della casa a cui doveva tornare dallo spensierato santuario del bar. Io comunicavo il mio messaggio, con la vocina pigolante come un fischietto fra quegli uomini che si muovevano grugnendo, quei bestioni attaccati alle loro birre, e lui mi diceva di far ritorno a casa, che sarebbe arrivato subito. All’infuori di me, nessuno capiva quanto era intenso, quanto era velenoso, l’odio che provava in quel momento, e scappavo via il più velocemente possibile. Non riuscii mai a dire a mia madre quanto mi dispiaceva andare al Dog a portare il suo messaggio, perché mio padre nascondeva i suoi sentimenti tanto bene che lei avrebbe riso a sentirmi spiegare ciò che avveniva in realtà.