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Furono due anni molto lunghi.

Prima del 1990 incominciarono a diffondersi i videotelefoni, e io ne avevo congegnato uno all’insaputa e senza il consenso della società dei telefoni, che continuavo a odiare più di qualunque altra cosa al mondo. Quando la piccola spia luminosa che avevo sostituito alla soneria incominciò a lampeggiare una sera di giugno, misi il ricevitore sul pickup audio ed energizzai il tubo catodico, nell’eventualità che anche chi chiamava avesse il video. — Pronto?

Aveva il video. Quando apparve la faccia di Shara, sentii un nodo freddo di paura alla bocca dello stomaco, perché avevo smesso di vedere dappertutto la sua faccia quando avevo smesso di bere, e ultimamente avevo pensato di ricominciare. Quando battei le palpebre e lei non sparì, mi sentii un po’ meglio e cercai di parlare. Fu inutile.

— Ciao, Charlie. È passato tanto tempo.

La seconda volta riuscii a parlare. — Mi sembra ieri. L’ieri di qualcun altro.

— Sì, è vero. Ho impiegato giorni e giorni per trovarti. Norrey è a Parigi e nessun altro sapeva dov’eri andato.

— Già. Come va l’agricoltura?

— Io… ci ho rinunciato, Charlie. È anche più creativa della danza, ma non è la stessa cosa.

— Allora che cosa fai?

— Lavoro.

— Balli?

— Sì. Charlie, ho bisogno di te. Voglio dire, ho bisogno di te. Ho bisogno delle tue telecamere e del tuo occhio.

— Lascia stare le precisazioni. Basta che abbia bisogno di me. Dove sei? Qual è il primo aereo per raggiungerti? Che telecamere devo portare?

— New York, fra un’ora, e nessuna. Non intendevo «le tue telecamere» alla lettera… a meno che adesso tu usi le GLX-5000 e un’Hamilton Board.

Fischiai. Mi fece male la bocca. — Non posso permettermelo. E del resto sono un tipo all’antica. Le telecamere mi piace tenerle in mano.

— Per questo lavoro userai un’Hamilton, e sarà una Masterchrome a venti input nuova di zecca.

— Ci coltivavi papaveri da oppio, in quella fattoria? O semplicemente hai trovato un filone di diamanti mentre aravi il campo?

— Verrai pagato da Bryce Carrington.

Io sbattei gli occhi.

— Allora, prenderai l’aereo, così potrò raccontarti tutto? Al New Age. Chiedi dell’appartamento presidenziale.

— Al diavolo l’aereo. Verrò a piedi. Farò prima. — Riattaccai.

Secondo la rivista Time che avevo letto nell’anticamera del mio dentista, Bryce Carrington era il genio che era diventato multimilionario in dollari convincendo parecchi colossi dell’industria a finanziare lo Skyfac, il grande complesso orbitante che aveva sfondato nel mercato dei cristalli. Se non ricordavo male, una rara malattia simile alla polio gli aveva immobilizzato le gambe inchiodandolo su una poltrona a rotelle. Ma le sue gambe avevano perduto le forze, non la funzione… nella gravità ridotta, andavano abbastanza bene. Perciò aveva creato le Skyfac, inviando squadre di minatori sulla Luna per rifornirlo di materie prime a poco prezzo, e viveva in orbita a gravità ridotta. In fotografia sembrava un autore d’un certo successo. A parte questo, di lui non sapevo niente. Prestavo poca attenzione alle notizie, soprattutto a quelle spaziali.

A quei tempi il New Age era l’albergo più alla moda di New York. Era stato costruito sulle rovine dello Sheraton. Sicurezza ultraefficiente, vetri antiproiettile, moquette morbidissime, e un atrio di una linea architettonica che una volta John D. MacDonald aveva chiamato «Dentiera Primitiva». Puzzava di quattrini. Ero contento di aver fatto lo sforzo di trovare una cravatta, e rimpiangevo di non essermi lucidato le scarpe. Quando entrai passando dalla camera di compensazione, un uomo incredibile mi bloccò la strada. Sembrava il buttafuori da night più svelto e più duro che avessi mai visto, e si comportava come se fosse il maggiordomo del Padreterno. Disse che si chiamava Perry e mi chiese se poteva aiutarmi… lo chiese come se non lo pensasse affatto.

— Sì, Perry. Le dispiacerebbe alzare un piede?

— Perché?

— Scommetto venti dollari che si è lucidato anche le suole. Sorrise a mezza bocca e non si spostò d’un centimetro. — Chi desidera vedere?

— Shara Drummond.

— Non è registrata.

— Appartamento presidenziale.

— Oh. — Perry capì. — L’amica di Mr. Carrington. Avrebbe dovuto dirmelo. Aspetti qui, prego. — Mentre telefonava per assicurarsi che ero atteso, e teneva gli occhi su di me e una mano vicino alla tasca,io trangugiai il cuore che mi era balzato in gola e cambiai espressione. Ci volle un po’. Dunque era così. Bene. Era così e basta.

Perry tornò e mi consegnò la piccola trasmittente a distintivo che mi avrebbe permesso di percorrere i corridoi del New Age senza venir falciato dal fuoco laser automatico e mi spiegò meticolosamente che sarei scoppiato se avessi cercato di uscire dall’albergo senza restituirlo. Dal suo modo di fare, capii che ai suoi occhi avevo saltato d’un colpo quattro gradini della scala sociale. Lo ringraziai, anche se non sapevo proprio perché.

Seguii le frecce verdi fluorescenti che apparivano sul soffitto privo di lampadine, e dopo una lunga passeggiata panoramica arrivai all’appartamento presidenziale. Shara mi aspettava sulla porta, e indossava qualcosa che sembrava il pigiama di un angelo. Faceva sembrare delicata la sua figura imponente. — Ciao, Charlie.

Io mi mostrai gioviale ed allegro. — Salve, pupa. Che bel posticino.

— Entra, Charlie.

Entrai. Era un appartamento dove la regina avrebbe potuto alloggiare con sua piena soddisfazione quando fosse venuta in città. Avreste potuto far atterrare un aereo nel soggiorno senza svegliare nessuno in stanza da letto. C’erano due pianoforti, ma un solo camino, e grande appena appena per arrostirci un bisonte… immagino che dovessero risparmiare un po’ sullo spazio. C’era Roger Kellaway al quadio, e per un momento pensai che fosse davvero nell’appartamento e stesse suonando un terzo pianoforte invisibile. Dunque era così.

— Posso offrirti qualcosa, Charlie?

— Oh, sicuro. Olio d’hashish, Tangier Supreme. E Dom Perignon per riempire la pipa.

Senza neppure sorridere Shara andò a uno stipo che sembrava una cattedrale lillipuziana, e tirò fuori esattamente ciò che avevo chiesto. Io restai impassibile e accesi. Le bollicine mi facevano solletico nella gola, e l’hashish era squisito. Incominciai a rilassarmi, e quando ci fummo passati il bocchino del narghilé per diverse volte, sentii che si rilassava anche lei. Allora ci guardammo, ci guardammo veramente, voglio dire, poi ci guardammo intorno e tornammo a guardarci. Scoppiammo a ridere simultaneamente, una risata che gettava fuori dalla stanza tutta la ricchezza e ne faceva entrare un’altra, di quelle che non sono costituite dai dollari. La sua risata era la stessa che ricordavo così bene, viscerale e fragorosa, libera e sfrenata; mi rassicurò immensamente. Ero così sollevato che non riuscivo a smettere di ridere, e questo faceva ridere lei; e ogni volta che stavamo per smettere Shara sporgeva le labbra e scoppiava in una specie di arpeggio balbettante d’ilarità. C’è un vecchio disco, Spike Jones Laughing Record, dove il suonatore di tuba cerca di suonare «Il volo del calabrone», e scoppia a ridere, e tutta l’orchestra crolla e sghignazza per due minuti buoni, e ogni volta che gli orchestrali restano senza fiato il suonatore di tuba tenta di ricominciare e quelli giù a ridere di nuovo; e una volta, quando Shara era giù di corda, avevo scommesso con lei dieci dollari che non sarebbe stata capace di ascoltare quel disco senza ridere e avevo vinto. Quando capii, adesso, che lo stava ricordando, rabbrividii e scoppiai in altre risate fragorose, e dopo un minuto arrivammo letteralmente al punto di cadere dalle poltroncine e di finire sul pavimento, sopraffatti dall’ilarità, a battere fiaccamente i pugni e a sghignazzare. Ogni tanto, tiro fuori quelle risate dalla mia memoria e le riascolto… ma non molto spesso, perché sono registrazioni che si rovinano in fretta.