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«Quando alla fine Vong ebbe terminato di riparare la mia barca, lasciai la Baia e feci vela a occidente sul Gran Mare. Un buon vento di poppa favoriva la mia spedizione.

«Verso il mezzodì del quinto giorno di viaggio avvistai l’isola. Priva di alture notevoli, pareva lunga almeno cinquanta miglia da nord a sud. Nella zona dove accostai inizialmente, la riva era totalmente composta di paludi d’acqua salata. Essendo un momento di bassa marea e il tempo insopportabilmente caldo, l’odore putrido del fango ci tenne a grande distanza finché non scorgemmo una spiaggia sabbiosa; là potei dirigermi verso una baia poco profonda, dove presto vidi i tetti di una piccola città accanto alla foce di un fiume.

«Legammo la gomena a un imbarcatoio rozzo e decrepito e con indescrivibile emozione, almeno per quel che mi concerne, mettemmo piede su quell’isola che aveva la fama di contenere il segreto della vita eterna.»

Penso che abbrevierò qualcosa della descrizione di Postwand; è prolisso e inoltre critica sempre il suo assistente Vong, che pare avere fatto la maggior parte del lavoro e che non provava mai nessuna di quelle emozioni «indescrivibili».

Lui e Vong visitarono la città, trovandola abbastanza male in arnese e per niente straordinaria, a parte la presenza di orribili sciami di mosche.

Tutti giravano con una copertura di garza da capo a piedi, e tutte le porte e le finestre erano protette da zanzariere. Postwand pensò che le mosche pungessero in modo selvaggio, ma scoprì che non era così; erano fastidiose, riferisce, però i loro morsi si sentivano a malapena e il punto colpito non dava prurito e non gonfiava. Si chiese se non portassero qualche malattia. Lo domandò alla gente dell’isola che disse di non conoscere malattie e che i soli che si ammalassero erano gli stranieri.

A quel punto Postwand cominciò a essere vivamente interessato, com’è ovvio, e domandò se non morissero. «Certo» gli risposero.

Non riferisce altro che gli abbiano detto, ma si ha l’impressione che lo trattassero come l’ennesimo idiota del continente venuto, a fare domande stupide. A quel punto Postwand si irrita e comincia a fare commenti sulla loro arretratezza, la cattiva educazione, e l’esecrabile modo di cucinare.

Dopo una orribile notte in qualche sorta di capanna, Postwand e assistente esplorarono per la lunghezza di alcuni chilometri l’entroterra, a piedi perché non c’era altro genere di trasporto.

In un minuscolo villaggio accanto a una palude, scorsero uno spettacolo che era, com’egli stesso lo descrive:

«La positiva conferma che l’affermazione degli abitanti dell’isola, di non essere affetti da malattie infettive, era una semplice vanteria o qualcosa di ancor più sinistro: infatti non ho mai visto un esempio di udreba più terribile, neppure nelle foreste di Rotolo. Il sesso della povera vittima era irriconoscibile; delle gambe rimanevano solo moncherini; l’intero corpo pareva essere stato liquefatto dal fuoco; solo i capelli, che erano del tutto bianchi, crescevano folti, lunghi, pieni di nodi e sporchi… un’orribile corona a quel tristo spettacolo».

Cercai «udreba». È una malattia temuta dagli yendi come da noi la lebbra, a cui assomiglia, anche se è molto più rapida e pericolosa nel suo decorso. Un singolo contatto con la saliva o qualche altro liquido corporeo può essere causa d’infezione. Non c’è vaccino e non c’è cura. Postwand s’inorridì nel vedere bambini giocare vicino al malato di udreba. A quanto pare, rimproverò di scarsa igiene una donna del villaggio, la quale si offese e lo rimproverò a sua volta, dicendogli di non fissare la gente. La donna raccolse il povero malato «come se fosse un bambino di cinque anni», dice il testo, e lo portò nella capanna, poi uscì con una ciotola piena di qualche materiale sconosciuto, brontolando ad alta voce. A quel punto, Vong, con cui non posso fare a meno di essere d’accordo, suggerì che fosse tempo di andarsene. «Diedi ascolto alle apprensioni del mio compagno, benché infondate», dice Postwand. Lasciarono l’isola quella sera stessa.

Non posso dire che dopo aver letto quel resoconto fossi entusiasta di visitare l’isola. Cercai qualche informazione più recente. Il mio bibliotecario era sparito, un po’ come facevano sempre gli yendi. Non sapevo usare bene il catalogo per argomenti, oppure era organizzato in modo ancor più incomprensibile dei nostri cataloghi elettronici, o c’erano pochissime informazioni relative all’Isola degli Immortali nella biblioteca.

Riuscii solo a trovare un trattato intitolato I diamanti di Aya (nome con cui veniva talvolta indicata l’isola). L’articolo era troppo tecnico per il leggomat, che continuava a lasciare spazi vuoti. Non capii molto, a parte il fatto che, a quanto pareva, non c’erano miniere; invece di dover essere disseppelliti dal profondo della terra, i diamanti si trovavano sulla superficie, un po’ come mi pare accada, nel mio piano, per il deserto del Sudafrica.

Dato che l’Isola di Aya era coperta di foreste e paludosa, i suoi diamanti venivano alla luce nella stagione umida, dopo una forte pioggia o uno smottamento di fango. Allora i cercatori arrivavano e andavano alla loro ricerca. Ogni tanto se ne trovava qualcuno enorme: quanto bastava per indurre altri forestieri a recarsi laggiù.

A quel che pareva, gli isolani non si univano mai alle ricerche. In effetti, alcuni cercatori delusi dicevano che gli abitanti dell’isola seppellivano i diamanti quando li trovavano. Se capivo bene il trattato, alcuni dei diamanti trovati sull’isola erano immensi, secondo i nostri standard. Erano descritti come «privi di forma regolare», in genere scuri se non neri, a volte chiari, e con un peso fino a due chili e mezzo. Non riferiva in che modo venissero poi tagliate quelle pietre gigantesche, a che servissero, o il loro prezzo di mercato. Evidentemente, gli yendi non attribuiscono ai diamanti lo stesso valore che gli attribuiamo noi. In tutto il trattato c’era un tono spento, quasi furtivo, come se riguardasse un argomento vagamente vergognoso.

Certamente se gli isolani avessero saputo qualcosa sul «segreto della vita eterna», non avrei dovuto trovare qualcosa di più sul segreto, e sugli isolani stessi, nella biblioteca?

Fu la semplice ostinazione, o la riluttanza a tornare dall’antipatica agente dì viaggio e ammettere il mio errore, a portarmi sul molo, l’indomani mattina.

Mi rallegrai infinitamente quando vidi il mio battello, un’affascinante mini-nave di linea, con una trentina di belle cabine. Il suo viaggio, della durata di due settimane tra andata e ritorno, la portava a fare visita ad alcune isole a occidente di Aya. La nave sorella, che toccava l’isola nel corso del viaggio di ritorno, mi avrebbe riportato al continente alla fine della settimana. O magari potevo semplicemente rimanere a bordo e compiere una crociera di quattordici giorni. Il personale di bordo della nave non avrebbe fatto obiezioni. Tutti erano molto disponibili, persino superficiali, su quel tipo di accordi.

Avevo l’impressione che la scarsa energia e una breve durata dell’attenzione fossero assai comuni tra gli yendi. Ma i miei compagni di viaggio non avevano problemi, e l’insalata di pesce freddo era eccellente.

Passai due giorni sul ponte della nave, a guardare gli uccelli marini che si lanciavano sulla superficie del mare, i grandi pesci rossi che saltavano e i pesci volanti, traslucidi, che si libravano sulle onde.

Avvistammo Aya la mattina del terzo giorno, molto presto. All’imboccatura della baia, il fetore delle paludi era davvero scoraggiante, ma una conversazione col comandante della nave mi aveva convinto, in definitiva, a visitare Aya, e scesi a riva.

Il capitano, un uomo sulla sessantina, mi aveva assicurato che c’erano davvero gli immortali sull’isola. Non nascevano immortali, ma contraevano l’immortalità dalla puntura delle mosche dell’isola.