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Secondo lui si trattava di un virus.

«È meglio che lei prenda precauzioni», aggiunse. «È raro. Non credo che ci sia stato un nuovo caso da cento anni… forse di più. Ma lei non dovrebbe correre rischi.»

Dopo aver riflettuto qualche momento, gli chiesi con tutta la delicatezza possibile, anche se la delicatezza è difficile da raggiungere con il translatomat, se non ci fosse gente che volesse sfuggire alla morte… gente che veniva sull’isola nella speranza di essere punta da una di quelle mosche capaci di infettare. C’era qualche lato negativo che non conoscevo, un prezzo troppo alto da pagare persino per l’immortalità?

Il capitano rifletté sulla mia domanda. Era un uomo che parlava lentamente, senza eccitarsi, quasi un po’ lugubre.

«Penso di sì», rispose. Mi fissò. «Potrà giudicare lei», aggiunse, «dopo essere stata sull’isola.»

Non volle dirmi altro. I capitani hanno quel diritto.

La nave non entrò nella baia; venne raggiunta alla barriera da una barca che portava a riva i passeggeri. I miei compagni di viaggio erano rimasti in cabina.

Quando uscii sul ponte per salire sulla barca e mi voltai per salutarli, c’erano soltanto il capitano e un paio di marinai a osservarmi (ero tutta coperta, da capo a piedi, di una rete forte, a maglie fini, che avevo preso in affitto dalla nave). Ero spaventata. Non sapere di che cosa mi spaventassi non serviva a togliermi la paura.

Mettendo insieme le parole del capitano e quelle di Postwand, pareva che il prezzo dell’immortalità fosse l’orribile malattia udreba. Ma ne avevo scarsissime prove e la mia curiosità era intensa.

Se nel mio paese si scoprisse un virus che rende immortali, enormi somme di denaro sarebbero devolute al suo studio; se fosse risultato che aveva degli effetti negativi, gli scienziati l’avrebbero alterato geneticamente per eliminarli e i talk show l’avrebbero messo nel loro stupidario, i giornalisti avrebbero pontificato sull’argomento, un po’ vi avrebbe pontificato anche il pontefice e come lui tutti gli altri capi religiosi, e intanto i ricchissimi si sarebbero impadroniti non solo del mercato, ma anche delle scorte. E a quel punto i ricchissimi sarebbero stati ancor più diversi da voi e da me.

Mi incuriosiva il fatto che non fosse successo nulla di tutto questo. Agli yendi, a quanto pareva, la possibilità di essere immortali interessava così poco che in biblioteca non c’era nulla al riguardo.

Quando la barca fu più vicino alla città, potei vedere che l’agente di viaggio non mi aveva detto il vero. C’erano alberghi, sull’isola, almeno in passato: un paio di grossi edifici di quattro piani. Erano chiaramente dei relitti, con le insegne pendenti e le finestre sbarrate o senza vetri.

Il barcaiolo, un giovanotto dall’aria timida, abbastanza di bell’aspetto, per quanto potevo giudicare dall’involucro di garza in cui era avvolto, mi chiese attraverso il translatomat: «La loggia dei cercatori, signora?» Io annuii e lui pilotò la barca verso un piccolo imbarcatoio all’estremità settentrionale dei moli.

Anche quella parte del porto pareva avere conosciuto tempi migliori. Adesso era cadente e deserta, priva di navi passeggeri, solo un paio di battelli per la pesca con la rete o con l’attrezzatura per le aragoste.

Salii sul molo e mi guardai attorno nervosamente, allarmata da quanto avevo udito sulle mosche. Ma al momento non ce n’erano. Diedi al giovanotto due radio di mancia ed egli, per riconoscenza, mi accompagnò lungo la strada — una stradina triste — fino alla loggia dei cercatori di diamanti. Si trattava di otto o nove decrepiti bungalow gestiti da una donna dall’aria svogliata che, parlando lentamente, senza virgole e senza punti, mi disse di prendere il numero 4 perché «gli schermi sono migliori colazione alle otto cena alle sette diciotto radio per il pranzo al sacco un radio e cinquanta di supplemento».

Nessuno degli altri bungalow era occupato. La toilette aveva una piccola perdita interna ed eterna… tic… tic, di cui non riuscii a scoprire l’origine. La colazione mi venne portata su un vassoio; il cibo era commestibile. Le mosche comparvero con il calore del giorno, ne arrivarono un mucchio, ma non gli sciami densi e terribili che mi ero aspettata. Gli schermi le tennero lontane e l’involucro di garza impedì loro di pungermi. Erano mosche color marrone, piccole e sottili.

Quel giorno e la mattina seguente, camminando per la città, di cui non riuscii a trovare da nessuna parte l’indicazione del nome, mi accorsi che la tendenza degli yendi alla depressione aveva toccato il fondo, laggiù, aveva raggiunto il suo nadir. Gli abitanti dell’isola erano gente triste. Senza brio. Senza vita. La mia mente visualizzò quelle parole e continuò a contemplarle.

Capivo che avrei gettato via la mia intera settimana con il solo risultato di piombare anch’io nella depressione, se non mi fossi fatta coraggio e non avessi rivolto alcune domande agli isolani.

Vidi il mio giovane marinaio che pescava con la canna dall’imbarcatoio e andai a parlargli.

«Mi puoi dire qualcosa degli immortali?» gli chiesi, dopo i soliti convenevoli.

«Be’, la maggior parte della gente si limita a guardare in terra e a cercarli. Nei boschi», mi rispose.

«No, non i diamanti», replicai, controllando il translatomat. «I diamanti non mi interessano molto.»

«Non interessano più a nessuno», commentò. «Una volta c’era un mucchio di turisti e di cercatori di diamanti. Penso che adesso sia cambiata la moda.»

«Ho letto in un libro che qui ci sono persone che hanno la vita molto, molto lunga… che in effetti non muoiono mai.»

«Sì», rispose, senza turbarsi.

«In città ci sono persone immortali? Ne conosci qualcuna?»

Lui si sporse a controllare il galleggiante. «Be’, no», disse. «Ce n’era uno nuovo, all’epoca di mio nonno, ma è andato nel continente. Era una donna. Credo che ce ne sia uno molto vecchio nel villaggio.» Indicò l’interno dell’isola. «Mia madre l’ha visto, una volta.»

«Se tu potessi, ti piacerebbe vivere un tempo lunghissimo?»

«Certo!» rispose, con tutto l’entusiasmo di cui era capace uno yendi. «Lo sai.»

«Ma non vuoi essere immortale. Porti la garza contro le mosche.»

Lui annuì. Non aveva nulla da obiettare. Pescava con guanti di garza, vedeva il mondo attraverso un retino.

Quella era vita.

Il padrone del negozio di attrezzi da pesca mi disse che si poteva raggiungere a piedi il villaggio in meno di una giornata e mi mostrò la strada.

La mia afflitta padrona di casa mi preparò una colazione al sacco. Partii la mattina dopo e all’inizio fui accompagnata da un sottile, insistente sciame di mosche. Era un percorso monotono, in mezzo a un paesaggio piatto e umido, ma il sole era tiepido e alla fine le mosche se ne andarono. Con stupore, mi trovai nel villaggio ancor prima di sentire fame e aprire il sacchetto della colazione.

Probabilmente, gli abitanti dell’isola camminavano piano e avevano poche occasioni per muoversi. Doveva essere il villaggio giusto, però, perché tutti avevano parlato di un solo villaggio, anch’esso senza nome.

Era piccolo, povero e triste. Sei o sette capanne di legno sul tipo delle isbe russe, un po’ sollevate da terra per tenerle lontano dal fango. Dappertutto correvano dei polli dal piumaggio color marrone chiaro, che si lanciavano richiami rauchi e brevi. Mentre mi avvicinavo, un paio di bambini corse a nascondersi.

E laggiù, appoggiata a una sorta di sedile accanto al pozzo del villaggio, c’era la figura di cui aveva parlato Postwand, esattamente come l’aveva descritta… senza gambe, senza sesso, con la faccia quasi priva di connotati, cieca, con la pelle come pane bruciato e folti capelli bianchi, infeltriti e sudici.

Mi fermai, incapace di parlare.