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Una donna uscì dalla capanna dove s’erano rifugiati i bambini. Discese alcuni scalini rachitici e si avvicinò a me. Indicò il mio translatomat e io automaticamente lo sollevai nella sua direzione, perché potesse parlare al microfono.

«Sei venuta a vedere l’immortale?» chiese.

Io annuii.

«Due radio e cinquanta», mi disse.

Io presi il denaro e glielo porsi.

«Vieni di qua», mi ordinò. Era poveramente vestita e non molto pulita, ma aveva un’espressione sincera: una comune donna sui trentacinque anni, con aria decisa e vigore nella voce e nei movimenti.

Mi portò al pozzo e si fermò davanti alla creatura seduta su una sedia di tela, da pescatori, senza le gambe, posta accanto al muricciolo. Io non riuscii a guardare la faccia, e neppure la mano orrendamente ferita. L’altro braccio terminava poco sopra il gomito, e il moncherino era coperto di una crosta nera. Distolsi lo sguardo.

«Vedi davanti a te l’immortale del nostro villaggio», disse la donna, con la cantilena della guida turistica. «È con noi da moltissime centinaia di anni. Da più di mille anni appartiene alla famiglia Roya.

«In questa famiglia è nostro dovere e nostro orgoglio prenderci cura dell’immortale. L’ora dell’alimentazione è alle sei del mattino e alle sei di sera. Mangia latte e semolino d’avena. Ha ottimo appetito e gode di buona salute, senza alcuna malattia. Non ha l’udreba. Ha perso le gambe a causa del terremoto, mille anni fa. È stato anche danneggiato dal fuoco e da altri incidenti, prima di essere affidato alle cure della famiglia Roya.

«La leggenda della mia famiglia dice che l’immortale era un tempo un bel giovanotto che per un periodo pari a molte volte la durata di una vita umana si guadagnò la vita cacciando nella palude. Si pensa che questo risalga a duemila, tremila anni fa. L’immortale non può sentirti e non può vederti, ma è lieto di accettare le tue preghiere per il suo benessere e le offerte per il suo sostentamento, dato che per il cibo e il riparo dipende completamente dalla famiglia Roya. Ti ringrazio molto; accetto di rispondere alle tue domande.»

Dopo qualche momento, osservai: «Non può morire».

Lei scosse la testa.

La sua espressione era impassibile; non priva di emozione, ma chiusa.

«Non porti la garza», dissi, notandolo solo allora. «E neanche i bambini. Non sei…»

Lei scosse di nuovo la testa. «Troppo fastidio», disse in tono tranquillo, non ufficiale. «I bambini se la strappano sempre. In ogni caso, qui non abbiamo molti insetti. E qui ce n’è solo uno.»

Vero. Pareva che le mosche fossero rimaste indietro, in città e nei campi che la circondavano, coperti da uno spesso strato di letame.

«Intendi dire che c’è un solo immortale la volta?»

«Oh, no», rispose lei. «Ce ne sono altri, dappertutto. Nel terreno. A volte la gente li trova. Souvenir. Ma quelli sono molto vecchi. Il nostro è ancora giovane, devi sapere.» Guardò l’immortale, con aria stanca, ma con espressione da proprietaria, come una madre guarda un neonato poco promettente.

«I diamanti?» chiesi. «I diamanti sono gli immortali?»

Lei annuì. «Dopo un tempo davvero molto lungo», rispose. Guardò lontano, in direzione degli acquitrini che circondavano il villaggio, e poi tornò a fissarmi.

«È venuto un uomo dal continente, lo scorso anno; uno scienziato. Ha detto che dovremmo seppellire il nostro immortale. In modo che possa trasformarsi in diamante, sai. Ma ha anche detto che per il cambiamento occorrono migliaia di anni. E per tutto il tempo lui patirebbe la fame e la sete sotto la terra e nessuno si occuperebbe di lui. Non è giusto seppellire viva una persona. È dovere della nostra famiglia prenderci cura di lui. E non verrebbe nessun turista.»

Questa volta fui io ad annuire.

L’etica della situazione andava al di là della mia. Io accettavo la sua scelta.

«Vuoi dargli da mangiare?» mi chiese. Evidentemente, c’era qualcosa in me che le piaceva, perché mi sorrise.

«No», dissi; devo ammettere di essere scoppiata in lacrime.

Si avvicinò a me e mi batté la mano sulla spalla.

«È una cosa molto triste», commentò. Tornò a sorridere. «Ma ai bambini piace dargli da mangiare», continuò. «E i soldi sono utili.»

«Grazie della tua gentilezza», dissi, asciugandomi gli occhi, e le diedi altri cinque radio, che lei fui lieta di accettare. Poi girai sui tacchi e attraversai di nuovo i terreni paludosi, fino alla città, dove attesi altri quattro giorni, finché non arrivò dall’ovest la nave sorella e il simpatico giovanotto mi portò a bordo con la sua barca. Lasciai l’Isola degli Immortali, e poco tempo più tardi lasciai anche il piano di Yendi.

Siamo una forma di vita basata sul carbonio, come dicono gli scienziati, ma non so come un corpo umano possa trasformarsi in diamante, a meno che non intervenga qualche fattore spirituale, forse come effetto di sofferenze veramente interminabili.

Forse «diamante» è solo il nome che gli yendi danno a quei grumi di distruzione, una sorta di eufemismo.

Non sono ancora certa di quello che intendesse la donna del villaggio quando ha detto che ce n’era solo uno. Non si riferiva agli immortali. Spiegava perché non proteggeva se stessa e i bambini dalle mosche e perché le pareva che i rischi fossero trascurabili. Forse voleva dire che tra tutti gli sciami di mosche delle paludi dell’isola c’è solo una mosca, una sola mosca immortale, che con la sua puntura infetta di immortalità le vittime.

LA CONFUSIONE DI UÑI

Si sente parlare di piani dove non si dovrebbe andare, di piani che nessuno dovrebbe visitare, neppure per breve tempo.

A volte, nell’orribile cacofonia del bar dell’aeroporto, si sentono gli uomini del tavolino accanto parlare a bassa voce: «Gli ho detto quello che gli gnegn hanno fatto a MacDowell», oppure: «Credeva di potercela fare, su Vavizzua». A quel punto, in genere, si intromette una voce acuta, stridula, enormemente amplificata, che grida: «I passeggeri del volo delle quarundici e trenta per Hhuhh si presentino al cancello tentibei per l’imbarco» o: «Shimbleglood Rrggrrggrr è pregato di mettersi in comunicazione tramite la linea interna», e sommerge tutte le voci, oltre ad allontanare il sonno e la speranza dalle povere anime che ciondolano sulle sedie di plastica azzurra e tubi d’acciaio inossidabile imbullonati al pavimento e che si auguravano di poter riposare brevemente tra i piani e gli aeroplani; ma intanto i discorsi degli uomini seduti al tavolino sont disparu, sono finiti.

Naturalmente poteva trattarsi di semplici vanterie per far sembrare più avventurosa la loro vita. Se gli gnegn o i vavizzua fossero davvero pericolosi, l’Agenzia Interplanaria avvertirebbe la gente di tenersi lontano, un po’ come avverte di non recarsi su Zuehe.

È ben noto che il piano di Zuehe è straordinariamente tenue. I visitatori dotati di massa e solidità ordinarie corrono il rischio di spezzare le delicate trame della realtà di Zuehe, di conseguenza danneggiando interi quartieri e mettendo a repentaglio la serenità dei padroni di casa. Le relazioni interpersonali, intime e piene d’affetto, che per gli zuehe sono tanto importanti, possono subire gravi tensioni e persino giungere alla rottura a causa del peso distruttivo di un trasgressore ignorante e indifferente. Nel frattempo, la sola conseguenza subita dal trasgressore è il brusco ritorno al proprio piano, a volte in qualche posizione particolare o a gambe all’aria, una cosa che può essere imbarazzante, ma dopotutto si è in un aeroporto, dove nessuno ti conosce e dunque la vergogna non conta.

Tutti vorrebbero vedere le torri di pietra di luna che sorgono a Nezihoa e che sono ritratte nella guida di Rornan, le steppe di nebbia interminabile, le scure foreste del Sezu, i leggiadri abitanti di Zuehe, che hanno i capelli color argento brunito talmente fini che la mano non si accorge di toccarli.