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È triste che un piano così incantevole non si possa visitare; per fortuna, alcuni di coloro che lo hanno visto sono stati in grado di descrivercelo. Comunque, qualcuno ci va ugualmente. Le persone normal-egoistiche giustificano la loro invasione di Zuehe con la nota scappatoia di ritenersi diversi da tutti quegli altri che vanno su quel piano e lo rovinano. Le persone estremamente egoiste ci vanno per vantarsene, proprio perché è fragile, danneggiabile e di conseguenza è un trofeo.

Quanto agli zuehe, sono troppo gentili, riservati e vaghi per proibire l’ingresso a chiunque. I verbi, nel loro nebuloso linguaggio, non hanno neppure un modo indicativo, tanto meno imperativo. Gli zuehe hanno solo il condizionale. Hanno mille modi per dire forse, chissà, a meno che, anche se, ma se… ma non un o un no deciso.

Così, al solito punto di ingresso nel piano, l’Agenzia Interplanaria ha collocato non un hotel, ma una rete: una grossa, forte rete di nailon. Chiunque arrivi su Zuehe, anche involontariamente, viene catturato, spruzzato di antiparassitario — di quello usato per le pecore — riceve un opuscolo contenente un avvertimento molto chiaro, in 442 lingue, ed è rinviato al suo piano, meno affascinante ma più durevole, dove l’Agenzia si assicura che arrivi a gambe all’aria.

Sono stata su un solo piano che davvero non raccomanderei a nessuno e dove certamente non farò mai ritorno. Non sono certa che sia esattamente pericoloso. Non sono la persona più adatta per giudicare i pericoli. Per farlo, occorre essere coraggiosi. Le emozioni e i brividi, che per alcune persone sono il sale della vita, a me tolgono tutto il gusto di vivere.

Quando sono spaventata, il cibo sa di segatura — il sesso, con la sua vulnerabilità del corpo e dello spirito, è l’ultima cosa che potrei desiderare — le parole sono prive di significato, il pensiero diviene incoerente, l’amore è paralizzato. Una codardia di questo livello, lo so, non è comune. Molte persone dovrebbero appendersi per i denti a una corda consumata, agganciata con un fermaglio per la carta a un pallone che perde aria calda, al di sopra del Grand Canyon, per provare quello che sento io quando salgo sul terzo scalino di una scala a pioli e cerco di mettere il becchime nella mangiatoia degli uccellini.

Ci sono persone che trovano esilarante il terrore e che riprendono a fare parapendio non appena si sono tolte il gesso delle fratture. Invece io scendo un passo la volta dalla scaletta, tengo ben saldo il corrimano e giuro di mai più salire ad altezze superiori al palmo.

Di conseguenza non volo più del minimo necessario e quando finisco intrappolata negli aeroporti non cerco i piani pericolosi, ma quelli pacifici, noiosi, ordinari, normalmente complicati, dove non corro il rischio di impazzire per lo spavento, ma mi allarmo soltanto un pochino, un po’ come capita ai codardi, per tutta la vita.

Mentre attendevo all’aeroporto di Denver dopo avere perso la coincidenza, attaccai bottone con una simpatica coppia che arrivava giusto allora da Uni. Mi dissero che era un bel posto.

Dato che erano due persone di mezza età, lui con un costoso videoregistratore e aggeggi elettronici assortiti, lei con i fuseaux e sandali infradito bianchi e tutt’altro che temerari, pensai che non avrebbero dato quel giudizio se fosse stato un luogo veramente pericoloso. Fu una supposizione molto stupida da parte mia.

Avrei dovuto rizzare le antenne nell’accorgermi che le loro descrizioni erano piuttosto vaghe.

«Laggiù succedono un mucchio di cose», mi disse l’uomo. «Ma tutte come da noi. Non è uno di quei posti stranieri stranieri.» E la moglie aggiunse: «Un paese come nel libro delle favole! Esattamente come quello che si vede in TV».

Ma neanche questo riuscì a mettermi in sospetto.

«Il clima è molto bello», disse la moglie. Il marito corresse: «Variabile».

Per me andava bene. Avevo con me un impermeabile leggero, e al mio volo per Memphis mancava un’ora e mezza.

Mi recai su Uni.

Mi registrai presso l’Ostello Interplanario.

UN BENVENUTO AI NOSTRI AMICI DEL PIANO ASTRALE! diceva l’insegna sul tavolo. La donna pallida e robusta, dai capelli rossi, che stava al banco mi diede un translatomat e una cartina autocentrante della città, ma mi indicò anche un cartellone:

PROVATE IN REALTÀ VIRTUALE
IL NOSTRO TOUR DELLE BELLEZZE DI UÑI,
OGNI VENTI IZ!MIR.

«Le converrebbe provarlo», mi disse la donna.

In generale evito le esperienze di tipo «virtuale», che sono sempre registrate con un tempo migliore di quello che incontro nel luogo e che tolgono la novità a tutti gli spettacoli che vorresti vedere, senza dare alcuna vera informazione. Ma due pallidi, corpulenti impiegati mi spinsero — in modo amichevole quanto deciso — verso il cubicolo della realtà virtuale e io non ebbi il coraggio di ribellarmi.

Mi aiutarono a mettere l’elmetto sulla testa, mi avvolsero attorno al corpo la tuta e mi infilarono i guanti e le calze cablate. Poi rimasi a sedere del tutto sola, per quel che mi parve almeno un quarto d’ora, in attesa che cominciasse la proiezione, e passai tutto quel tempo cercando di vincere la claustrofobia, osservando i colori che mi ballavano negli occhi e chiedendomi a quanti minuti corrispondesse un iz!mit. O che il singolare fosse iz!m: un iz!m, due iz!mit? A meno che il plurale non fosse indicato da un prefisso, perché in tal caso il singolare sarebbe stato z!mit.

Però, dopo un poco, visto che non succedeva niente, che l’almanaccare sulla grammatica mi era venuto a noia, decisi di mandare al diavolo l’intera esperienza. Scivolai fuori dalla tuta della realtà virtuale, passai con indifferenza colpevole davanti agli impiegati e mi trovai fuori dall’ostello, in mezzo alle piantine in vaso. I vasi di piante grasse davanti agli hotel sono uguali in tutti i piani.

Guardai la mia cartina autocentrante e mi diressi alla Galleria d’Arte, che era contrassegnata con tre stelle.

La giornata era soleggiata, ma fredda. La città, edificata principalmente in pietra grigia e con tetti di tegole rosse, aveva un’aria vecchia, sedentaria e prospera. La gente se ne andava per i propri affari senza prestare attenzione a me. Gli uñiati mi parevano in prevalenza corpulenti, con la pelle chiara e i capelli rossi. Tutti portavano soprabiti, gonne lunghe fino alle caviglie e stivali dalla suola spessa.

Arrivai alla Galleria d’Arte, in fondo al suo piccolo parco, ed entrai. Quasi tutti i quadri raffiguravano donne dai capelli rossi, dalla pelle bianca, un po’ grasse e senza vestiti, anche se alcune di loro portavano gli stivali. La tecnica pittorica era buona, ma non mi dicevano molto.

Stavo per uscire quando venni coinvolta in una discussione. Due persone — maschi, mi parve, anche se era difficile dirlo, sotto tutti quei soprabiti, gonne e stivali — discutevano davanti al ritratto di una donna obesa, rossa di capelli, sdraiata su un divano a fiori e vestita dei soli stivali. Mentre passavo, uno di loro si voltò verso di me e disse, o così il translatomat rese le sue parole: «Se la figura è l’elemento centrale compositivo nella tensione dei blocchi e delle masse, il dipinto non si può ridurre a uno studio della luce indiretta sulle superfici, vero?»

Lui (o lei) mi rivolse la domanda in modo così semplice e diretto, e con una tale urgenza, che io non potevo dire semplicemente: «Ha detto, scusi?» o scuotere la testa e fingere di non avere capito.

Tornai a guardare il quadro e risposi, dopo un momento: «Be’, forse, ma non utilmente».

«Ascoltiamo i fiati», intervenne l’altro e solo allora mi accorsi della musica ambientale, un pezzo orchestrale che non conoscevo, dominato al momento dagli strumenti a fiato, forti e lamentosi: oboe, forse, o fagotti nel registro acuto.