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«’Nulla di quel che faccio potrà permettermi di raggiungere una meta che non sia alla mia portata’, come disse il re Yudhishthira nello scoprire che il paradiso non era esattamente come da lui sperato.

«Ci sono ostacoli che neppure il cavallo più coraggioso può superare. Se i desideri fossero cavalli, ne avrei un’intera mandria, roani e sauri, incantevoli cavalli selvaggi che non hanno mai conosciuto la briglia, che non sono mai stati domati, che galoppano lungo la pianura fra rosse mesa e montagne azzurre. Ma i fifoni stanno in sella a cavalli a dondolo fatti di legno e con gli occhi dipinti con la vernice, e vanno su e giù, su e giù, sempre nello stesso punto della stanza dei giochi, su e giù, e le pianure, le mesa e i monti sono solo negli occhi del cavaliere. Perciò, lascia perdere i tre desideri e, piuttosto, passami un salamino».

Mangiammo insieme, il vecchio e io. I salamini erano eccellenti, e così il purè e le cipolle fritte. Non avrei potuto desiderare una cena più appetitosa.

Poi sedemmo insieme e rimanemmo per qualche minuto in silenzio, a fissare il fuoco; infine lo ringraziai dell’ospitalità e gli chiesi come raggiungere l’Ostello Interplanario.

«È una notte pazza», osservò lui, dondolando sul dondolo.

«Domattina devo essere a Memphis», gli spiegai.

«Memphis», ripeté lui, pensoso. O forse disse: «Mem-fish», come il pesce. Dondolò un altro po’ e continuò: «Ah, bene, allora. Meglio andare a est».

E, dato che proprio in quel momento un intero gruppo di persone eruppe da una stanza interna che non avevo notato fino a quell’istante — gente dalla pelle bluastra e dai capelli d’argento, in smoking o vestito da cocktail con le spalle fuori e minuscole scarpe a punta, che discuteva in tono acuto, rideva forte e gesticolava in modo esagerato, battendo gli occhi, ciascuno con un calice pieno di qualche liquido oleoso e un’oliva verde imbalsamata e sola — non mi parve il caso di fermarmi, ma uscii di corsa nella notte, che evidentemente era pazza solo nella capanna del vecchio, perché lì fuori, sulla spiaggia, regnava il silenzio, la mezza luna brillava sull’acqua placida e nera che sospirava e scivolava piano sull’ampia curva della riva.

Non avendo idea della direzione in cui era l’est, mi diressi a destra, dal momento che in genere ho l’impressione che l’est stia bene a destra e che l’ovest si accordi meglio con la sinistra; questo potrebbe significare che sono rivolta a nord per gran parte del tempo.

Il mare era invitante; mi sfilai le scarpe e le calze e camminai sul bagnasciuga con l’acqua fresca che mi lambiva i piedi. Il tutto era così pieno di pace che non ero assolutamente preparata alla forte esplosione di rumore, luce ferocemente chiara e minestra al pomodoro calda che mi colpirono tutti insieme, gettandomi a terra mentre uscivo sul ponte di una nave che faceva rotta, attraverso scrosci di pioggia, su un mare grigio e tempestoso, pieno di macchie di schiuma o teste di delfini, non saprei dire cosa.

Una voce immensa muggiva ordini incomprensibili dal ponte di comando e una voce ancor più immensa, la sirena della nave, lanciava attraverso la pioggia e la nebbia il suo vasto lamento per dare l’allarme della presenza di iceberg.

«Voglio essere all’Hotel Interplanario!» gridai, ma la mia esile voce venne cancellata dal clamore e dal frastuono che regnavano attorno a me. Inoltre non avevo mai creduto alla storia dei tre desideri.

Avevo i vestiti grondanti di pioggia e di minestra al pomodoro ed ero al massimo dello sconforto, finché una folgore — un fulmine verde, ne avevo letto la descrizione, ma non ne avevo mai visti — colpì la tolda, con lo sfrigolio di un’enorme padella di salsicce, in mezzo all’agitazione grigia, a neppure cinque metri da me; con uno schianto tremendo, il ponte si tranciò giusto a metà.

Per fortuna, proprio in quel momento avevamo colpito un iceberg, che si incuneò nella spaccatura della nave. Io mi arrampicai sul parapetto e lasciai il ponte, ormai inclinato di un angolo assurdo, per saltare sul ghiaccio. Poi, dall’iceberg, vidi le due metà della nave allontanarsi l’una dall’altra, inclinandosi e affondando sempre più. Tutta la gente che era corsa sul ponte portava il costume da bagno, azzurro: bermuda gli uomini, olimpionico le donne. Alcuni dei costumi avevano i galloni in oro, ed erano evidentemente la divisa degli ufficiali, perché quelli con i galloni davano ordini e quelli senza galloni obbedivano: calarono sei scialuppe di salvataggio, tre per lato, e vi salirono ordinatamente.

L’ultimo a salire fu un uomo con una tale fila di strisce dorate sui calzoncini da bagno da coprire quasi completamente l’azzurro. Quando salì sulla scialuppa, tutt’e due le parti della nave sprofondarono silenziosamente. Le barche formarono un convoglio e si allontanarono in mezzo ai delfini dal muso bianco, remando vigorosamente.

«Ehi!» gridai. «Aspettatemi! Ci sono anch’io!»

Ma non si voltarono indietro.

Le barche scomparvero in fretta nel buio che si addensava sull’acqua gelida e delfinitiva.

Potevo solo arrampicarmi sul mio iceberg e controllare cosa riuscissi a vedere. Mentre salivo sulle gobbe e i pinnacoli di ghiaccio, pensai a Peter Pan sulla sua roccia, che diceva: «Morire sarà una grande avventura». Almeno, ricordavo che avesse detto qualcosa del genere. Avevo sempre pensato che quella frase fosse molto coraggiosa da parte sua, decisamente una maniera costruttiva di pensare alla morte, e forse conteneva anche un fondo di verità. Ma io non avevo alcun particolare desiderio di scoprire se fosse vero o no, in quel momento. In quel momento volevo solo ritornare all’Hotel Interplanario. Ma ahimè, quando giunsi in cima all’iceberg, non scorsi nessun albergo. Si vedevano soltanto il mare grigio, i delfini, la nebbia e le nubi, grigie anch’esse, e l’oscurità che lentamente si addensava.

In precedenza, tutto il resto, in ogni altro posto, si era rapidamente trasformato in qualcosa di diverso. Perché non era successo all’iceberg? Perché non era diventato un campo di grano, o una raffineria di petrolio, o un vespasiano? Perché ero bloccata lassù?

Non potevo proprio fare nulla? Nemmeno battere i tacchi delle mie scarpette rosse e dire: «Voglio essere nel Kansas?» Che cosa c’era che non andava in quel piano? Un mondo come nel libro delle favole, davvero! A quel punto avevo i piedi gelati e solo il calore della minestra al pomodoro impediva ai miei vestiti di congelare nel forte vento che fischiava sulla superficie del ghiaccio.

Dovevo muovermi. Dovevo fare qualcosa. Cercai di fare un buco nel ghiaccio, scavando con le mani e con i piedi. Spezzando i punti sporgenti, colpendo con una serie di calci fino a staccare grosse schegge che raccoglievo e gettavo via. Nel volare nell’aria per infine cadere nel mare, assomigliavano a gabbiani o a farfalle bianche.

Non che la cosa mi fosse d’aiuto. Adesso ero davvero in collera, a tal punto che l’iceberg cominciò a sciogliersi attorno a me, fumando e gorgogliando leggermente; io penetrai nel suo interno come un ferro caldo, arroventato dall’ira e gridai ai due individui pallidi, che mi sfilavano i guanti e le calze cablate dalle mani e dalle gambe: «Che diavolo credete di fare?»

Erano imbarazzatissimi e tremendamente preoccupati. Temevano che fossi impazzita, che volessi fare causa al loro Ostello Interplanario, che parlassi male di Uni negli altri piani. Non sapevano che cosa si fosse guastato nel tour in realtà virtuale delle Bellezze di Uni, anche se chiaramente qualcosa si era rotto. Avevano chiamato il programmatore.

Quando l’uomo arrivò — con addosso unicamente un paio di calzoncini da bagno azzurri e gli occhiali dalla montatura di corno — diede solo una breve occhiata alla macchina. Dichiarò che era in perfetto ordine. Affermò che la mia confusione era dovuta a una sfortunata semisovrapposizione di frequenze, una sorta di effetto moiré mentale, causato da qualcosa di inconsueto nelle mie onde mentali, che interagiva con il programma. «Un’anomalia», disse. «Dovuta a una resistenza.» Il tono era d’accusa. Io sentii di nuovo montare la collera e dissi a lui e ai due inservienti che se la loro maledetta macchina era guasta, non dovevano dare la colpa a me, ma ripararla oppure chiuderla, e lasciare che i turisti sperimentassero le bellezze di Uni sulla loro carne dalla solidità, dal colore e dalla resistenza variabili.