Выбрать главу

Ma io non riuscivo mai a capire la battuta.

Ascoltando la televisione, non sentii mai alcun membro di un comitato affermare che si doveva prendere qualche provvedimento. Eppure il governo degli hennebet riusciva a fare il suo dovere. Il paese funzionava tranquillamente, venivano raccolte le tasse, veniva raccolta l’immondizia, i buchi nelle strade venivano asfaltati, nessuno moriva di fame. Le elezioni si svolgevano a brevi intervalli; le votazioni locali su questo o quell’argomento venivano sempre annunciate per televisione ed era fornito materiale informativo.

La signora Nannattuta e il signor Battannelle andavano sempre a votare. Spesso votavano anche i bambini. Quando compresi che alcune persone disponevano di un numero di voti maggiore delle altre, rimasi sconvolta.

Annup mi disse che la signora Tattava aveva diciotto voti, anche se di solito non si preoccupava di usarli, e probabilmente avrebbe potuto averne trenta o quaranta, se si fosse presa la briga di registrarsi.

«Ma perché ha più voti degli altri?»

«Be’, è anziana, lo sa», mi rispose il ragazzo. La sua umiltà era commovente, quando mi forniva qualche informazione o correggeva i miei malintesi. Tutti si comportavano allo stesso modo, come se mi ricordassero qualcosa che sapevo, ma che al momento mi era sfuggito di mente. Cercò di spiegare: «Vede, deve sapere, io ho un voto solo».

«Allora, diventando più vecchio, si pensa che tu diventi più saggio?»

Lui mi guardò con aria dubbiosa.

«Oppure è un modo di onorare gli anziani, dando loro più voti?!»

«Be’, lei li ha già, vero?» disse Annup. «Ritornano a lei, sa. O è lei che ritorna a loro, in realtà, come dice sempre mia madre. Se riesce a tenerli in mente. Gli altri voti che lei ha avuto.»

La mia espressione, probabilmente, era vuota come un muro di mattoni. «Quando lei, lo sa, viveva di nuovo.» Non disse: «viveva prima»; disse: «viveva di nuovo».

«La gente ricorda altre — le sue altre — vite?» chiesi, e lo guardai con aria interrogativa per avere la conferma.

Annup rifletté sulle mie parole. «Penso di sì», rispose, non molto sicuro. «È così che fate voi?»

«No», spiegai io. «Intendo dire, a me non è mai successo. Non capisco.»

Composi la parola «trasmigrazione» sul translatomat. La traduzione in hennebet riguardava gli uccelli che volano al Nord durante la stagione delle piogge e al Sud in quella asciutta. Composi «reincarnazione» e mi parlò di processi digestivi. Poi provai con i grossi calibri: «metempsicosi». La macchina mi disse che non c’era nessuna parola per la «fede» condivisa da numerose popolazioni di altri piani, che le «anime» dopo la morte, passassero a un «corpo» diverso. Il translatomat me lo diceva in hennebet naturalmente, ma le parole che ho messo tra virgolette erano in inglese.

Mentre ero occupata nella ricerca, sopraggiunse Annup. Gli hennebet non impiegano grossi macchinari e per gli scavi e l’edilizia si servono di attrezzi manuali, ma molto tempo fa hanno preso in prestito da popoli di altri piani le tecnologie elettroniche. Le usano per archiviare le informazioni, per la comunicazione e per il voto.

Annup adorava il translatomat, che per lui era un giocattolo, una sorta di videogame. Ora scoppiò a ridere. «Fede? È pensare in quel modo?» chiese. Io gli rivolsi un cenno affermativo. «E cosa sono le anime?» volle sapere.

Per parlare dell’anima cominciai a parlare del corpo; così è sempre più facile, si possono fare dei gesti. «Questo, qui davanti a te, io — braccia, gambe, testa, stomaco — è il corpo. Nella tua lingua mi pare si chiami atto. È così?»

Questa volta fu lui a farmi un cenno affermativo.

«E l’anima è all’interno del corpo.»

«Come le budella?»

Provai da un’angolazione diversa. «Quando una persona è morta, diciamo che la sua anima se n’è allontanata.»

«Allontanata?» mi fece eco. «Per andare dove?»

«Il corpo, l’atto, rimane qui… l’anima vola via. Alcuni dicono che va nell’Oltretomba, nel mondo dopo la vita.»

Mi fissò senza capire. Trascorremmo quasi un’ora a discutere della questione corpo-anima, cercando di trovare un terreno comune nelle due lingue, ma riuscendo solo ad aumentare la confusione. Il ragazzo era assolutamente incapace di effettuare una qualunque distinzione tra materia e spirito, l’atto era tutto ciò che eravamo; una persona era tutta atto; come poteva essere qualcosa d’altro? Non c’era posto per qualcosa d’altro. «Come può esserci qualcosa di più dell’unnua?» mi chiese alla fine.

«Allora, ciascuno di voi — ciascuna persona — è l’universo?» gli chiesi io, dopo avere controllato sul translatomat e scoperto che unnua significava universo, tutto, ogni cosa, tutto il tempo, l’eternità, l’interezza, il complessivo e, inoltre, tutte le portate di una cena, il contenuto di una caraffa o bottiglia piene, e anche il piccolo di ogni specie al momento della nascita.

«E come non potrebbe essere? A parte gli immaturi, naturalmente.»

A quel punto dovetti andare ad aiutare sua madre a cucinare e fui lieta di lasciarlo. La metafisica non è mai stata il mio punto forte. Era interessante come quella gente — che, per quanto ne sapevo, non aveva una religione organizzata — avesse una metafisica completamente chiara anche per un ragazzo di quindici anni. Mi domandai quando l’avesse appresa, e dove; probabilmente a scuola.

Quando gli chiesi dove avesse imparato che l’atto era unnua e così via, negò di averlo mai saputo.

«Non so nulla», rispose. «Che abba posso avere? La prego, parli con persone che sanno chi sono, come la signora Tattava!»

E così feci. Mi buttai. Stava ricamando fiori a punto catenella, con il filo di seta giallo, accanto alla finestra che dava sul canale, dove poteva approfittare della luce del pomeriggio. Mi sedetti accanto a lei e dopo qualche tempo chiesi: «Signora Tattava, ricorda le vite da lei vissute prima di questa?»

«Come può, una persona, vivere più di una vita?»

«Be’, allora, perché lei ha diciotto voti?»

Mi sorrise. Aveva un sorriso straordinariamente dolce, placido. «Oh, be’, lo sa anche lei, ci sono tutte le altre persone che vivono questa vita. Anch’esse sono qui. E tutte hanno diritto di votare, non crede? Quando vogliono. Ma io sono terribilmente pigra. Non mi piace raccogliere tutte quelle informazioni. Così, la maggior parte delle volte, finisco per non votare. Lei vota sempre?»

«Io non sono una…» cominciai. Mi interruppi per cercare la parola cittadina sul mio translatomat. Mi disse che la parola in hennebet per cittadino era persona.

«Non sono sicura di quello che sono», dissi.

«Molte persone non lo sono mai», rispose lei, parlando con grande sincerità, questa volta, e sollevando lo sguardo dal punto catenella.

I suoi occhi, in mezzo alle rughe e dietro le lenti bifocali, erano tra il castano e il verde. Gli hennebet non fissano mai le persone, ma lei ora mi guardò. Fu uno sguardo gentile, sereno, distaccato e rapido. Ebbi l’impressione che non mi vedesse bene.

«Ma non ha importanza, lo sa», disse. «Se per un momento in tutta la sua vita lei sai chi è, allora quella è la sua vita, quel momento, e quello è unnua, tutto qui. In una vita breve ho visto la faccia di mia madre, simile al sole, e perciò sono qui. In una vita lunga sono andata laggiù, laggiù e anche laggiù; ma ho scavato nel giardino, ho estratto con la mano la radice di un’erbaccia e così sono unnua. Quando lei invecchierà, lo sa, continuerà a essere qui e non là, tutto è qui. Tutto è qui», ripeté, con una risatina serena, e continuò a ricamare.