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Si rendeva conto di avere la mente confusa. Nonostante gli sforzi, non riusciva a pensare chiaramente e quell’incapacità lo spaventava.

Si domandò se fosse il caso di fermarsi a dormire in un’area di servizio. Dopo essersi riposato, forse avrebbe riacquistato il controllo di sé.

Poi si ricordò che Hilary-Katherine era già a St. Helena e il pensiero che lei stesse preparandogli una trappola era molto più inquietante della sua temporanea confusione mentale.

Si domandò se la casa fosse ancora sua. Dopotutto, lui era morto. (O morto per metà.) E lo avevano sepolto. (O pensavano di averlo fatto.) La proprietà sarebbe stata liquidata.

Mentre Bruno considerava le proprie perdite, s’infuriò con Katherine per avergli rubato così tanto e avergli lasciato così poco. L’aveva ucciso, l’aveva strappato a se stesso, lasciandolo solo, senza nessuno da toccare e con cui parlare e ora si era persino trasferita a casa sua.

Premette il piede sull’acceleratore finché la lancetta segnò i centoquaranta chilometri l’ora.

Se un poliziotto l’avesse fermato per eccesso di velocità, Bruno l’avrebbe ammazzato. Avrebbe utilizzato il coltello. L’avrebbe squarciato, maciullato. Nessuno avrebbe impedito a Bruno di raggiungere St. Helena prima dell’alba.

7

Nel timore di essere visto dai guardiani notturni che lo ritenevano morto, Bruno Frye decise di non avvicinarsi troppo alla proprietà. Posteggiò a un miglio di distanza, sulla strada principale, e si incamminò attraverso i vigneti verso la casa che aveva fatto costruire cinque anni prima.

La gelida luna bianca irradiava luce fra le nuvole scure e Bruno riuscì a trovare la strada fra le vigne.

Le colline erano immerse nel silenzio. Nell’aria aleggiava un vago odore di solfato di rame, spruzzato durante l’estate per eliminare i parassiti, ricoperto dal fresco profumo della pioggia. Aveva cessato di piovere. Non era stato un gran temporale, solo una leggera pioggerellina e qualche tuono; la terra non era fradicia ma solo morbida e umida. Il cielo della notte era decisamente meno cupo rispetto a mezz’ora prima. L’alba non era ancora spuntata, ma ormai non avrebbe tardato molto.

Quando raggiunse lo spiazzo, Bruno si nascose dietro un cespuglio e studiò le ombre che circondavano la casa. Le finestre erano chiuse. Non si muoveva nulla. Si udiva solo il dolce sibilo del vento.

Bruno rimase accucciato per qualche momento. Aveva paura di muoversi, temeva che lei lo stesse aspettando all’interno. Poi, finalmente, con il cuore che batteva forte, decise di abbandonare il nascondiglio fra i cespugli; si alzò e si diresse verso l’ingresso principale.

Nella mano sinistra stringeva una torcia che non aveva avuto il coraggio di accendere, mentre nella destra reggeva un coltello. Era pronto a scattare al benché minimo movimento, ma tutto sembrava straordinariamente tranquillo.

Giunto all’ingresso, appoggiò la torcia, cercò la chiave nella tasca della giacca e aprì la porta, spalancandola con un calcio. Accese la torcia ed entrò in casa con fare circospetto e il coltello puntato davanti a sé.

Lei non lo stava aspettando nell’ingresso.

Bruno passò lentamente da una stanza lugubre e stracolma di mobili all’altra. Controllò negli armadi, dietro i divani e le enormi vetrinette.

Lei non era in casa.

Forse era ritornato in tempo per far fallire qualsiasi piano stesse architettando.

Si fermò in mezzo al soggiorno, sempre stringendo il coltello e la torcia, puntati verso il pavimento. Oscillò per un attimo, esausto, frastornato e confuso. Era uno di quei momenti in cui sentiva il disperato bisogno di parlare con se stesso, di condividere le sue emozioni con se stesso, di risolvere i suoi enigmi con se stesso per ritornare a vedere le cose in modo chiaro. Ma non avrebbe mai più potuto chiedere aiuto a se stesso, perché ormai era morto.

Morto.

Bruno iniziò a tremare. Poi scoppiò a piangere.

Si sentiva solo, spaventato e incredibilmente confuso.

Per quarant’anni, si era spacciato per un uomo qualunque ed era sempre riuscito a passare per normale, senza troppa fatica. Ma non avrebbe più potuto farlo. Era morto per metà. Il dolore era troppo grande per potersi riprendere. Aveva perso la fiducia. Senza il suo altro sé a cui rivolgersi in cerca di conforto e di consigli, non aveva i mezzi per continuare quella commedia.

Ma quella puttana era a St. Helena. Da qualche parte. Non riusciva a decifrare i suoi pensieri, non riusciva a ritrovare se stesso, ma era certo di una cosa: doveva trovarla e ucciderla. Doveva sbarazzarsi di lei una volta per tutte.

Giovedì mattina, la sveglìa era stata puntata alle sette.

Tony si svegliò di soprassalto con un’ora di anticipo. Si sedette sul letto, si rese conto di dove si trovava e riappoggiò la testa sul cuscino. Rimase disteso sulla schiena, nell’oscurità più completa, fissando il soffitto e ascoltando il respiro tranquillo di Hilary.

Aveva abbandonato il sonno per sfuggire a un incubo. Era un sogno macabro e brutale, pieno di camere mortuarie, tombe e bare, un sogno cupo, lugubre e impregnato di morte. Coltelli. Proiettili. Sangue. Vermi che uscivano dalle pareti e si infilavano nelle orbite vuote dei cadaveri. Morti viventi che parlavano di coccodrilli. Nel sogno, la vita di Tony era stata messa in pericolo più volte, ma, in ogni occasione, Hilary si era buttata fra lui e l’assassino ed era morta per salvarlo.

Quel sogno l’aveva fatto star male.

Aveva paura di perderla. L’amava. L’amava più di quanto potessero dire le parole. Aveva un’ottima parlantina e non era certo riluttante a esternare i propri sentimenti, ma non riusciva a trovare le frasi giuste per esprimere esattamente ciò che provava per lei. Riteneva addirittura che non esistessero parole adatte: erano semplicemente troppo banali e assolutamente inadeguate. Se l’avesse persa, la vita sarebbe ovviamente continuata, ma in modo triste e desolato, piena di un dolore profondo e duraturo.

Fissò il soffitto buio e ripetè a se stesso che non aveva nulla da temere. Quel sogno non era un presàgio. Non era una profezia. Era solo un sogno. Un brutto sogno. Nient’altro che un sogno.

In lontananza, un treno fischiò due volte. All’udire quel suono freddo e solitario, Tony si tirò le coperte fino al mento.

Bruno decise che forse Katherine lo stava aspettando nella casa che aveva fatto costruire Leo. Uscì e attraversò i vigneti, portando con sé il coltello e la torcia.

Alla pallida luce dell’alba, sotto il cielo ancora scuro che avvolgeva la vallata in una cupa penombra, Bruno iniziò a salire verso la casa sulla collina. Decise di non utilizzare la funivia perché avrebbe dovuto raggiungere il secondo piano dell’azienda dove si trovava la stazione più bassa. Non osava farsi vedere da quelle parti perché immaginava che il posto pullulasse di spie di Katherine. Voleva introdursi furtivamente in casa e l’unica strada accessibile era rappresentata dalla lunga scala fissata alla parete.

Cominciò a salire rapidamente, due gradini alla volta, ma si rese conto ben presto che avrebbe dovuto prestare la massima attenzione. La scala si stava sgretolando. Non era stata mantenuta in ordine, a differenza della funivia. Anni e anni di pioggia, vento e caldo soffocante avevano eroso a poco a poco la calcina che teneva insieme la vecchia struttura. Frammenti di pietrisco provenienti dai trecentoventi gradini si sbriciolavano sotto i suoi piedi e precipitavano lungo la scarpata. Perse più volte l’equilibrio e rischiò di cadere all’indietro sfracellandosi al suolo. La ringhiera di protezione era fatiscente, decrepita e semidistrutta, e non avrebbe certo potuto salvarlo in caso di caduta. Ma lentamente e cautamente seguì il tracciato a zigzag della scala e finalmente raggiunse la cima della collina.

Attraversò il prato, ormai invaso dalle erbacce. Decine di cespugli di rose, un tempo amorevolmente curati, si erano diramati in tentacoli spinosi in tutte le direzioni, simili a mucchi intricati di arbusti senza fiore.