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Bruno entrò nell’enorme dimora vittoriana e si mise a perlustrare le stanze polverose coperte dalle ragnatele; ovunque regnava l’odore stantio della muffa che aveva invaso i tappeti e i tendaggi. La casa era stracolma di mobili antichi, oggetti in cristallo, sculture e altre chincaglierie, ma non sembrava contenere nulla di sinistro. Katherine non era neppure lì.

Non sapeva se fosse un bene o un male. Da una parte, significava che non si era trasferita in quella casa durante la sua assenza. Ed era un bene. Ne fu sollevato. Ma d’altra parte, dove diavolo era finita?

I pensieri si facevano sempre più confusi. La sua capacità di ragionare aveva cominciato a vacillare qualche ora prima, ma ormai non si fidava nemmeno più dei suoi cinque sensi. Gli parve di udire alcune voci e si mise a setacciare la casa per accorgersi alla fine che erano solo i mormorii indistinti da lui stesso prodotti. Per un attimo la muffa sembrò avere un odore diverso, simile al profumo preferito di sua madre, ma ben presto tornò a puzzare di muffa come sempre. Quando si mise poi a osservare i quadri di famiglia appesi alle stesse pareti fin dai tempi della sua infanzia, non riuscì a capire che cosa rappresentassero: le forme e i colori si scomponevano e gli occhi non erano in grado di riconoscere neppure le figure più semplici. Si bloccò davanti a un dipinto che raffigurava un paesaggio con molti alberi e fiori di campo, ma non riuscì a vedere quegli oggetti; si ricordava solo che c’erano sempre stati, ma al loro posto si erano sostituite chiazze di colore, linee spezzate e macchie informi.

Cercò di non farsi prendere dal panico. Cercò di convincersi che quel senso di confusione e di disorientamento era semplicemente dovuto alla mancanza di sonno. Aveva guidato per molte ore ed era comprensibilmente esausto. Sentiva gli occhi pesanti, rossi e gonfi. Aveva male dappertutto. Il collo era rigido. Aveva solo bisogno di dormire. Dopo una bella dormita, tutto sarebbe tornato a posto. Era ciò che continuava a ripetere a se stesso. Era ciò di cui doveva convincersi.

Dopo aver setacciato la casa da cima a fondo, si ritrovò nel raffinato attico, il vasto locale con il soffitto spiovente nel quale aveva trascorso gran parte della sua vita. Il debole fascio di luce della torcia illuminò il letto nel quale aveva dormito quando ancora abitava in quella casa.

Trovò se stesso già a letto. Era disteso con gli occhi chiusi e sembrava dormisse. Ovviamente i suoi occhi erano stati ricuciti. E la camicia da notte era in realtà la veste funebre per la sepoltura che gli aveva messo Avril Tannerton. Perché se stesso era morto. Quella puttana l’aveva accoltellato e ucciso. Era morto stecchito da una settimana.

Bruno era troppo debole per dare sfogo alla propria rabbia e al proprio dolore. Andò verso il letto matrimoniale e si distese nella sua metà, accanto a se stesso.

Avvertì la puzza di se stesso. Un odore pungente di sostanze chimiche.

Le lenzuola avvolte attorno a se stesso erano macchiate e umide a causa del liquido scuro che fuoriusciva lentamente dal corpo.

Bruno non ci fece caso. La sua parte del letto era asciutta. E anche se Bruno sapeva benissimo che se stesso era morto e non avrebbe mai più potuto parlare e ridere, si sentì felice al solo pensiero di riposargli accanto.

Bruno allungò una mano e toccò se stesso. Sfiorò la mano fredda, dura e rigida, e poi la strinse.

Per un attimo gli parve di essere meno solo.

Ovviamente Bruno non si sentiva più completo. Non si sarebbe mai più sentito completo perché metà di lui era morta. Ma disteso accanto al proprio cadavere, non si sentiva neppure totalmente solo.

Lasciando accesa la luce per tenere lontana l’oscurità nella grande stanza, Bruno si addormentò.

Lo studio del dottor Nicholas Rudge era al ventesimo piano di un grattacielo nel cuore di San Francisco. Hilary pensò che probabilmente l’architetto non aveva mai sentito parlare del termine «zona sismica», oppure che aveva stretto un patto con il diavolo in persona. Un’intera parete dello studio di Rudge era di vetro: tre enormi pannelli che arrivavano al soffitto ed erano tenuti insieme da due sottili bacchette di metallo; oltre quella vetrata si estendevano la città, la baia, il maestoso ponte del Golden Gate e le ultime tracce della foschia notturna. Il vento del Pacifico stava disperdendo le nubi grigie e il cielo si faceva sempre più terso. La veduta era spettacolare.

Sul lato opposto della vetrata, era stato sistemato un tavolo rotondo in teak con sei comode sedie, ovviamente per le terapie di gruppo. Hilary, Tony, Joshua e il dottore si accomodarono.

Rudge era un uomo incredibilmente affabile. Sembrava che considerasse l’individuo che gli stava di fronte come la persona più affascinante e interessante che avesse mai conosciuto. Era pelato oltre qualsiasi definizione (come una palla da biliardo? come il sederino di un bebé? Forse anche di più…), ma aveva barba e baffi ben curati. Indossava un vestito a tre pezzi con cravatta e fazzolettino in tinta, ma non aveva niente del banchiere o del dandy. Aveva un’aria distinta e accattivante, rilassata come se avesse indossato le scarpe da tennis.

Joshua riassunse le prove come aveva esplicitamente richiesto il medico e tenne un breve discorso sul dovere da parte dello psichiatra di proteggere la società da un paziente che mostri una chiara tendenza omicida. Nel giro di un quarto d’ora, Rudge si convinse che, in un caso come quello, non sarebbe stato opportuno e tanto meno saggio appellarsi al segreto professionale. Era più che disposto a mostrare loro il dossier di Frye.

«Anche se devo ammettere,» aggiunse Rudge, «che, se foste venuti qui singolarmente per raccontarmi questa incredibile storia, non vi avrei prestato molta attenzione. Anzi, avrei pensato che aveste bisogno di me.»

«Abbiamo preso in considerazione la possibilità di essere impazziti tutt’e tre,» disse Joshua.

«Ma l’abbiamo scartata,» proseguì Tony.

«Be’, se siete squilibrati,» spiegò Rudge, «allora fareste meglio a dire ‘impazziti tutt’e quattro’, perché ormai ci credo anch’io.»

Rudge spiegò che negli ultimi diciotto mesi si era incontrato con Frye per diciotto volte, in sedute di cinquanta minuti l’una. Subito alla prima visita, si era reso conto che il paziente era gravemente disturbato e aveva cercato di convincere Frye a farsi vedere almeno una volta la settimana, poiché riteneva che il suo problema fosse troppo serio per una terapia con un solo incontro al mese. Ma Frye aveva rifiutato l’idea di presentarsi più spesso.

«Come ho già detto al telefono a Mr Rhinehart» proseguì Rudge, «Mr Frye era lacerato da due desideri opposti. Voleva il mio aiuto, voleva giungere alla radice del suo problema. Ma nello stesso tempo, aveva paura di sbilanciarsi troppo: temeva quello che avrebbe potuto scoprire su se stesso.»

«Che tipo di problema aveva?» chiese Tony.

«Be’, ovviamente il vero problema psicologico, che era la causa della sua ansia, della tensione e dello stress, era racchiuso nel profondo del suo inconscio. È per questo che aveva bisogno di me. Alla fine, forse saremmo riusciti a scoprire il nocciolo della questione, se la terapia avesse avuto successo. Ma non siamo mai giunti a quel punto. Quindi non posso dirvi che cosa aveva perché in realtà non lo so. Ma forse vi interesserà sapere che cosa ha portato Frye da me. Che cosa gli ha fatto capire che aveva bisogno di aiuto.»

«Certo,» intervenne Hilary. «Almeno è un punto di partenza. Che sintomi accusava?»

«Ciò che lo turbava di più, almeno dal suo punto di vista, era un incubo ricorrente che lo terrorizzava.»

Al centro del tavolo c’era un registratore con accanto due pile di cassette: quattordici da una parte e quattro dall’altra. Rudge allungò il braccio e ne prese una dal mucchio più piccolo.