Era l’apice dell’ottimismo californiano.
Rita Yancy abitava in una casetta ad angolo con un enorme portico, in una strada tranquilla. Lungo il vialetto d’ingresso erano stati piantati fiori bianchi e gialli.
Joshua suonò il campanello. Hilary e Tony rimasero alle sue spalle.
Venne ad aprire una signora anziana, con i capelli grigi raccolti in uno chignon. Aveva il viso pieno di rughe e gli occhi azzurri limpidi e vivaci. Il sorriso era accattivante. Indossava un vestito da casa blu, uri grembiule bianco e un paio di scarpe decisamente fuori moda. Si asciugò le mani in uno strofinaccio e disse: «Sì?»
«Mrs Yancy?» domandò Joshua.
«Sono io.»
«Mi chiamo Joshua Rhinehart.»
La donna annuì. «Immaginavo che sarebbe venuto.»
«Devo assolutamente parlarle.»
«Mi sembra la classica persona che non si arrende facilmente. Anzi, che non si arrende mai.»
«Sarei disposto a dormire qui fuori sotto il portico pur di ottenere quello per cui sono venuto.»
Lei sospirò. «Non sarà necessario. Dopo la sua telefonata di ieri, ho riflettuto molto sull’intera faccenda e sono giunta alla conclusione che lei non può farmi nulla. Proprio niente. Ho settantacinque anni e non credo che sbattano in galera gente della mia età. Quindi posso anche raccontarle come stanno le cose ed evitare così che lei continui a perseguitarmi.»
Indietreggiò di un passo, spalancò la porta e li fece entrare.
Nell’attico della casa in cima alla collina, Bruno si svegliò urlando.
La stanza era buia. Le pile della torcia si erano scaricate completamente mentre dormiva.
Sussurri.
Dappertutto.
Sussurri appena accennati, sibilanti e cattivi.
Bruno cominciò a colpirsi il volto, il collo, il torace e le braccia nel tentativo di scacciare quelle cose disgustose che gli strisciavano addosso, e cadde dal letto. Sul pavimento sembravano esserci ancora più cose striscianti e sibilanti che sul letto: ce n’erano a migliaia e producevano quei terribili sussurri. Gemette e farfugliò parole senza senso, poi si mise una mano sul naso e sulla bocca per evitare che quelle cose disgustose si infilassero dentro di lui.
Luce.
Fili di luce.
Sottili fasci di luce fosforescente risaltavano sulla tappezzeria peraltro cupa della stanza. Non era una gran luce, ma era pur sempre meglio di niente.
Si precipitò verso quei deboli bagliori, allontanando quelle cose da sé, e si ritrovò davanti alla finestra. Era chiusa dalle imposte e la luce filtrava attraverso le sottili fessure. Con mani tremanti, Bruno cercò a tastoni la maniglia della finestra. Finalmente la trovò, ma non riuscì a muoverla: era bloccata.
Urlando e contorcendosi, tornò goffamente verso il letto, lo tastò e trovò la torcia che aveva appoggiato sul comodino. Si fece strada di nuovo verso la finestra e fracassò il vetro, usando la torcia come una mazza. Riuscì a individuare il gancio che teneva chiuse le imposte, vi infilò dentro una mano, armeggiò per un attimo con la parte arrugginita e finalmente riuscì ad aprire le persiane, scoppiando a piangere dalla gioia quando la luce inondò la stanza.
I sussurri svanirono.
Il salotto-buono di Rita Yancy, così come lo chiamava lei, rifuggendo da qualsiasi termine più moderno, era lo stereotipo del soggiorno nel quale le dolci, care vecchiette del suo stampo erano solite trascorrere gli anni del tramonto. Tendaggi in cinz. Pareti colme di quadri e quadretti con ricami fatti a mano e proverbi e poesiole circondati da minuscoli fiorellini: la perfetta immagine della buona volontà, del buonumore e del pessimo gusto. Tende guarnite di nappine. Sedie con lo schienale alto. Copie del Reader’s Digest sparpagliate sul tavolino. Un cesto pieno di ferri e gomitoli. Un tappeto a fiori protetto da passatoie in tinta. Coperte lavorate a mano gettate sul divano. Un pendolo che ticchettava lontano.
Hilary e Tony si sedettero sul bordo del divano, quasi temessero di rovinare la coperta amorevolmente tessuta. Hilary notò che le innumerevoli cianfrusaglie e i soprammobili erano perfettamente lucidi, senza tracce di polvere. Aveva l’impressione che Rita Yancy sarebbe scattata a prendere uno straccio se solo qualcuno avesse sfiorato uno di quegli oggetti a lei tanto cari.
Joshua si accomodò sulla poltrona, appoggiando la testa e le braccia sul coprischienale.
Mrs Yancy si sistemò in quella che ovviamente era la sua sedia preferita: ormai sembrava che quell’oggetto le avesse trasmesso parte della sua personalità, ricevendo in cambio qualcosa da lei. Hilary si ritrovò a pensare a Mrs Yancy e a quella sedia che si trasformavano lentamente in un’unica creatura, organico-inorganica, con sei gambe e la pelle vellutata.
La donna prese una coperta blu e verde da uno sgabello e se l’avvolse intorno alle gambe.
Ci fu un attimo di assoluto silenzio durante il quale persino il pendolo parve bloccarsi, come se il tempo stesso si fosse fermato, come se fossero stati tutti congelati e trasportati insieme con la stanza su un pianeta lontano, per essere esposti nel locale museo di Antropologia Terrestre.
Fu Rita Yancy a rompere il silenzio e le sue parole distrussero l’immagine idilliaca che Hilary si era fatta di lei. «Bene, direi che è proprio inutile continuare a menare il can per l’aia. Non voglio perdere tutta la giornata per una faccenda così stupida. Vediamo di arrivare al punto. Volete sapere perché Bruno Frye mi dava cinquecento dollari al mese. Era il prezzo del silenzio. Mi pagava perché tenessi la bocca chiusa. Sua madre mi aveva pagato la stessa cifra ogni mese per quasi trentacinque anni e, alla sua morte, Bruno aveva iniziato a mandarmi gli assegni. Devo ammettere che mi ha lasciato di stucco. Al giorno d’oggi non è facile trovare un figlio disposto a pagare tutto quel denaro per proteggere la reputazione della madre, soprattutto dopo che questa ha tirato le cuoia. Ma lui ha pagato.»
«Sta forse dicendo che ricattava Mr Frye e sua madre prima di lui?» domandò Tony, incredulo.
«Chiamatelo come vi pare. Prezzo del silenzio, ricatto o come più vi piace.»
«A giudicare da quanto ci ha detto,» proseguì Tony, «credo che per la legge si tratti di ricatto bell’e buono.»