Osservando lo sceriffo che impartiva ordini agli impiegati e ai poliziotti e ripensando agli avvenimenti delle ultime ventiquattr’ore, Hilary ebbe la netta impressione che le cose stessero muovendosi troppo velocemente, come un mulinello di vento; un vento colmo di sorprese e orribili segreti, proprio come un tornado è colmo di detriti e zolle vorticose strappate alla terra. Quel tornado la stava trascinando verso un precipizio invisibile ma estremamente pericoloso. Avrebbe voluto fermare il tempo per avere qualche giorno di tranquillità e ripensare a ciò che avevano scoperto; avrebbe voluto esaminare gli ultimi, complicati intrighi della misteriosa vicenda Frye a mente lucida. Era sicura che quella fretta fosse assurda, persino mortale. Ma i meccanismi della legge, ormai in moto, non potevano più essere fermati. E il tempo non poteva essere imbrigliato, come un cavallo al galoppo.
Si augurò che davanti a lei non ci fosse il precipizio.
Alle 17.30, dopo aver messo in moto la macchina della legge, Laurenski e Joshua cercarono di rintracciare telefonicamente un giudice. Ne trovarono uno, Julian Harwey, che rimase affascinato dalla storia dei Frye. Harwey si rese conto della necessità di riesumare il cadavere e di sottoporlo a ulteriori esami per poterlo identificare. Se il secondo Bruno Frye fosse stato arrestato e fosse riuscito a passare l’esame psichiatrico, cosa altamente improbabile ma non impossibile, a quel punto il pubblico ministero avrebbe avuto bisogno di una prova fìsica attestante l’esistenza di due gemelli identici. Harwey firmò l’ordine di riesumazione e alle 18.30 lo sceriffo aveva già in mano il documento.
«I becchini al cimitero non riusciranno a scoperchiare la tomba al buio,» spiegò Laurenski, «ma dirò loro di iniziare alle prime luci dell’alba.» Fece qualche altra telefonata, una al direttore del Napa County Memorial Park dove era sepolto Frye, un’altra al coroner della contea, che avrebbe condotto l’autopsia sulla salma, e l’ultima ad Avril Tannerton, l’impresario delle pompe funebri che avrebbe dovuto occuparsi del trasbordo del corpo dal cimitero al laboratorio di patologia e viceversa.
Quando Laurenski depose finalmente la cornetta, Joshua esclamò: «Immagino che voglia perquisire la casa di Frye.»
«Certo,» rispose Laurenski. «Dobbiamo trovare le prove che testimonino che in quella casa non viveva un uomo solo. E se Frye ha veramente ammazzato altre donne, forse scopriremo qualcosa. Penso sia una buona idea perquisire anche la casa sulla collina.»
«Possiamo entrare nella casa nuova quando vuole,» lo informò Joshua, «ma in quella vecchia non c’è luce. Dovremo aspettare che faccia giorno.»
«Okay,» approvò Laurenski. «Ma vorrei comunque dare un’occhiata questa notte stessa.»
«Adesso?» domandò Joshua, alzandosi dalla panca.
«Nessuno di noi ha cenato,» affermò Laurenski. Prima ancora di sentire l’intera storia, lo sceriffo aveva già avvertito la moglie che sarebbe tornato a casa molto tardi. «Andiamo a mangiare un boccone al ristorante dietro l’angolo e poi possiamo fare una scappata a casa di Frye.»
Prima di uscire, Laurenski comunicò alla centralinista dove avrebbe potuto rintracciarlo e le chiese di informarlo immediatamente se fosse giunta la notizia dell’arresto del secondo Bruno Frye da parte della polizia di Los Angeles.
«Non sarà tanto facile,» disse Hilary.
«Temo che tu abbia ragione,» si intromise Tony. «Bruno ha nascosto un terribile segreto per quarant’anni. Può darsi che sia pazzo, ma è anche estremamente in gamba. La polizia di Los Angeles non riuscirà a catturarlo tanto in fretta. Dovrà giocare d’astuzia per riuscire a inchiodarlo.»
Al calare delle tenebre, Bruno aveva richiuso le persiane nell’attico.
C’erano candele accese sui comodini. E un paio anche sul cassettone. Le fiammelle tremolanti proiettavano ombre ballerine sulle pareti e sul soffitto.
Bruno sapeva che avrebbe già dovuto essere fuori alla ricerca di Hilary-Katherine, ma non aveva la forza di alzarsi e uscire. Continuava a rimandare.
Aveva fame. Improvvisamente si rese conto che non mangiava da ventiquattr’ore. Lo stomaco reclamava.
Rimase seduto per un po’ sul letto, accanto al cadavere che lo fissava, cercando di decidere dove andare a procurarsi qualcosa da mangiare. Nella dispensa aveva notato alcune lattine apparentemente intatte, ma anche se non erano esplose, probabilmente contenevano cibo avariato. Riflette per circa un’ora su quell’annoso problema: doveva trovare qualcosa da mettere sotto i denti senza cadere nelle mani delle spie di Katherine. Ce n’erano dappertutto. Quella puttana e le sue spie. Dappertutto. Aveva la testa ancora confusa e, nonostante la fame, faceva fatica a concentrarsi sul cibo. Alla fine, si ricordò che probabilmente c’era qualcosa in casa sua. Nel corso dell’ultima settimana, il latte era sicuramente andato a male e il pane sarebbe stato duro, ma la dispensa era piena di scatolette e il frigorifero stracolmo di formaggio e frutta. C’era anche del gelato nel freezer. A quel pensiero, sorrise come un bambino.
Pregustando il sapore del gelato e sperando che un buon pasto gli fornisse le energie necessarie per dare la caccia a Hilary-Katherine, uscì dalla mansarda e attraversò la casa reggendo in mano una candela. Giunto all’esterno, spense la fiamma e si mise la candela in tasca. Scese lungo la scala semidistrutta e si incamminò a lunghi passi tra i vigneti sprofondati nelle tenebre.
Dieci minuti più tardi, in casa sua, accese di nuovo la candela perché temeva che le luci potessero attirare l’attenzione di visitatori indesiderati. Afferrò un cucchiaio dal cassetto sotto il lavandino, prese una confezione di gelato al cioccolato da un chilo e si sedette al tavolo per un quarto d’ora, affondando il cucchiaio direttamente nel cartone e sorridendo felice fino a quando non riuscì più a ingoiare un solo boccone.
Lasciò cadere il cucchiaio nella confezione semivuota, rimise il gelato nel freezer e si rese conto che avrebbe dovuto preparare un po’ di cibo da portare nella casa sulla collina. Forse avrebbe impiegato qualche giorno a rintracciare e uccidere Hilary-Katherine e non voleva essere obbligato a intrufolarsi di nascosto in casa alla ricerca di qualcosa da mangiare. Prima o poi, quella puttana avrebbe chiesto alle sue spie di tenere sotto controllo quel posto e quindi avrebbero finito con il catturarlo. Ma sicuramente non sarebbe mai andata a cercarlo nella casa sulla collina, non l’avrebbe fatto per tutto l’oro del mondo: era lì quindi che doveva tenere le provviste di cibo.
Andò nella camera da letto e prese un’enorme valigia dall’armadio, la portò in cucina e la riempì con scatolette di pesche, pere e arance, barattoli di burro d’arachidi e olive, due vasetti di marmellata avvolti in tovaglioli di carta e confezioni di minuscoli wurstel. Quando ebbe finito, la valigia risultò incredibilmente pesante, ma lui era sufficientemente forte per riuscire a trasportarla.
Non faceva la doccia da parecchie ore, da quando si era fermato a casa di Sally, e si sentiva sudicio. Odiava lo sporco, perché gli faceva venire in mente i sussurri e quelle orribili creature striscianti che popolavano la fossa oscura nella terra. Decise di correre il rischio di lavarsi rapidamente prima di riportare il cibo nella casa sulla collina, anche se significava spogliarsi e restare privo di difese per qualche minuto. Ma mentre attraversava il soggiorno per raggiungere il bagno principale, udì il rumore di macchine che si avvicinavano. I motori risuonavano incredibilmente forte nel silenzio assoluto della campagna.
Bruno corse alla finestra e socchiuse la tenda per poter osservare all’esterno.
Due auto. Quattro fari. Puntavano in direzione dello spiazzo.
Katherine.
Quella puttana!