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La puttana e i suoi amici. I suoi amici morti.

Terrorizzato, corse in cucina, afferrò la valigia, spense la candela e se la mise in tasca. Uscì dalla porta sul retro e si precipitò verso il vigneto immerso nell’oscurità, proprio mentre le auto si fermavano davanti alla casa.

Bruno procedette carponi, trascinando la valigia fra le vigne, con le orecchie tese, pronte a cogliere il minimo rumore. Fece il giro della casa per riuscire a vedere le macchine. Si nascose dietro la valigia appoggiata a terra, rannicchiandosi sulla terra umida, fra le ombre della notte. Osservò gli occupanti della macchina che scendevano e il cuore prese a battergli furiosamente quando li riconobbe.

Lo sceriffo Laurenski e un suo aiutante. Così anche i poliziotti erano morti viventi! Non l’aveva mai sospettato.

Joshua Rhinehart. Anche il vecchio avvocato era un cospiratore! Era uno degli amici infernali di Katherine.

E poi c’era lei! Quella puttana. La puttana nel suo nuovo corpo. E anche quell’uomo di Los Angeles.

Entrarono tutti in casa.

Accesero le luci una dopo l’altra.

Bruno cercò di ricordare se aveva lasciato qualcosa fuori posto. Forse la candela aveva sgocciolato ma la cera doveva già essersi indurita. Non avrebbero potuto capire da quanto tempo era stata accesa. Aveva lasciato il cucchiaio nella confezione di gelato, ma avrebbe potuto farlo anche molti giorni prima. Grazie al cielo, non aveva fatto la doccia! L’acqua sul pavimento e l’asciugamano bagnato l’avrebbero tradito; se avessero trovato un asciugamano usato di recente, avrebbero capito immediatamente che era tornato a St. Helena e avrebbero intensificato le ricerche.

Si alzò in piedi, sollevò la valigia e si allontanò precipitosamente. Proseguì verso la cantina e poi svoltò in direzione della collina. Non sarebbero mai andati a cercarlo nella casa sulla collina. Nemmeno per sogno. In quella casa sarebbe stato al sicuro perché loro pensavano che avesse troppa paura per ritornarci.

Se si fosse nascosto nell’attico, avrebbe avuto il tempo per pensare e organizzarsi. Non doveva agire in fretta. Ultimamente era un po’ confuso, soprattutto dopo la morte dell’altra metà di se stesso, e non avrebbe osato affrontare quella puttana fino a quando non avesse esaminato a fondo la situazione.

Ormai sapeva come trovarla. Attraverso Joshua Rhinehart.

Avrebbe potuto metterle le mani addosso in qualsiasi momento.

Ma prima aveva bisogno di tempo per mettere a punto un piano a prova di bomba. Non vedeva l’ora di tornare nell’attico per discuterne con se stesso.

Laurenski, Tim Larsson, Joshua, Tony e Hilary si sparpagliarono nella casa. Setacciarono cassetti, armadi, mobili e credenze.

Dapprima, non trovarono tracce che facessero pensare a una casa abitata da due uomini invece che da uno solo. Forse c’erano un po’ troppi vestiti. E più provviste di quanto ci si sarebbe aspettati nella casa di un uomo solo. Ma non c’erano prove.

Poi, rovistando nei cassetti della scrivania, Hilary si imbattè in un pacchetto di fatture e ricevute non ancora saldate. Due di queste provenivano da due dentisti diversi: uno di Napa e l’altro di San Francisco.

«Ma certo!» esclamò Tony chiamando tutti a raccolta. «I gemelli sarebbero dovuti andare da medici diversi e, soprattutto, da dentisti diversi. Il Bruno Numero Due non sarebbe potuto andare nello studio di un dentista per farsi aggiustare un dente che quello stesso dentista aveva già riparato al Bruno Numero Uno solo una settimana prima.»

«Questo ci può aiutare,» riconobbe Laurenski. «Persino due gemelli identici presentano delle differenze per quanto riguarda i denti. Le impronte dentali dimostreranno che esistono due Bruno Frye.»

Più tardi, controllando un armadio in camera da letto, Larsson fece una scoperta agghiacciante. In una scatola di scarpe trovò una dozzina di foto di giovani donne, sei patenti di guida a loro nome e altre undici intestate ad altrettante ragazze. In ogni foto spiccava l’immagine di una donna che aveva qualcosa in comune con tutte le altre: un bel viso, occhi scuri, capelli scuri e lineamenti molto simili.

«Ventitré donne che assomigliano vagamente a Katherine,» mormorò Joshua. «Mio Dio, ventitré.»

«Una galleria di morte,» mormorò Hilary, tremando.

«Perlomeno non sono tutte anonime,» aggiunse Tony. «Sulle patenti sono riportati nomi e indirizzi.»

«Diffonderemo subito la notizia,» disse Laurenski, mandando Larsson a prendere contatto via radio con la Centrale. «Ma temo di sapere già quello che scopriremo.»

«Ventitré casi di omicidi mai risolti avvenuti negli ultimi cinque anni,» bofonchiò Tony.

«O ventitré sparizioni,» aggiunse lo sceriffo.

Rimasero altre due ore in quella casa, ma non trovarono niente di interessante, a parte le fotografie e le patenti. Hilary aveva i nervi scossi ed era visibilmente turbata all’idea che anche la sua patente sarebbe potuta finire in quella scatola. Ogni volta che apriva un cassetto o un’antina dell’armadio, si aspettava di trovare un cuore avvizzito trafitto da un picchetto o la testa putrefatta di una donna morta. Si sentì sollevata quando conclusero le ricerche.

Nella fresca aria della sera, Laurenski chiese: «Domani mattina verrete nell’ufficio del coroner?»

«Non faccia conto su di me,» esclamò Hilary.

«No, grazie,» ribattè Tony.

Joshua incalzò: «Comunque non potremmo fare nulla.»

«A che ora ci vediamo alla casa sulla collina?» domandò Laurenski.

Joshua rispose: «Tony, Hilary e io ci andremo subito domani mattina, per aprire le finestre. Quella casa è rimasta chiusa per cinque anni. È meglio farle prendere un po’ d’aria prima di iniziare a frugare in giro. Perché non ci raggiunge appena ha finito con il coroner?»

«D’accordo,» disse Laurenski. «Ci vediamo domani. Forse la polizia di Los Angeles riuscirà a prendere quel bastardo nel corso della notte.»

«Speriamo,» si augurò Hilary.

Dalle Mayacamas si udì il fragore di un tuono.

Bruno Frye trascorse gran parte della notte parlando con se stesso e organizzando meticolosamente la morte di Hilary-Katherine.

La sua altra metà continuò a dormire accanto al tremolio delle candele. Sottili fili di fumo si levarono dai mozziconi. Le fiamme ballerine gettavano macabre ombre sulle pareti e si riflettevano negli occhi vuoti del cadavere.

Joshua Rhinehart non riuscì a dormire. Continuò a rigirarsi nel letto, ingarbugliandosi sempre più nelle lenzuola. Alle tre del mattino si alzò, andò verso il bar e si versò un doppio bourbon, bevendolo tutto d’un fiato. Ma nemmeno così riuscì a calmarsi.

Non aveva mai sentito la mancanza di Cora come in quella notte.

Hilary si svegliò più volte per colpa degli incubi, ma la notte trascorse rapidamente. Il tempo parve volare a velocità supersonica. Aveva sempre l’impressione di correre verso un precipizio, ma non riusciva a fare nulla per fermarsi.

All’alba, quando Tony si svegliò, Hilary gli si avvicinò e gli sussurrò in un orecchio: «Facciamo l’amore.»

Per circa mezz’ora si persero l’uno nelle braccia dell’altra, con la passione e l’entusiasmo di sempre. Assaporarono sino in fondo quell’unione dolce e silenziosa.

Poi lei mormorò: «Ti amo.»

«Anch’io ti amo.»

«Non importa quello che può succedere,» proseguì lei. «Perlomeno siamo stati insieme per qualche giorno.»

«Non essere fatalista.»

«Be’… non si sa mai.»

«Abbiamo ancora molti anni davanti a noi. Moltissimi anni da trascorrere insieme. E nessuno potrà toglierceli.»

«Tu sei così ottimista. Avrei voluto conoscerti molto tempo fa.»

«Ormai il peggio è passato. Ora conosciamo la verità.»