«Torna in sella.»
Avanzarono a passo lento, la luce del giorno che svaniva tutto attorno a loro. Anche Arya si rese conto di essere stremata. Aveva tanto bisogno di dormire quanto ne aveva Frittella, ma non osava proporlo. Se si fossero addormentati, potevano riaprire gli occhi trovandosi di fronte Vargo Hoat, assieme a Shagwell il Giullare e Urswyck il Fedele e Rorge e Mordente e septon Utt e tutti i suoi altri mostri.
Non ci volle molto perché il moto del cavallo diventasse ipnotico come il dondolio di una culla. Ad Arya si chiudevano gli occhi. Lasciava che le palpebre calassero, solo per un momento, per poi sollevarle di colpo. “Non posso mettermi a dormire” urlò silenziosamente a se stessa. “Non posso! Non posso!” Si premette un pugno chiuso sull’occhio, strofinandolo con vigore. Serrò le redini e spronò il cavallo al trotto. Ma né lei né il cavallo furono in grado di reggere quel ritmo. Passarono solo pochi momenti prima che rallentassero di nuovo al passo. Pochi altri momenti, e gli occhi di Arya tornarono a chiudersi. E questa seconda volta non si riaprirono tanto rapidamente.
Quando si svegliò, Arya si rese conto che il cavallo si era fermato e che stava brucando un ciuffo d’erba. Gendry la stava scuotendo per un braccio. «Il sei addormentata» le disse.
«Stavo solo riposando gli occhi.»
«Li hai riposati per un bel pezzo, allora. Il tuo cavallo se ne vagava in cerchio, ma è stato solo quando si è fermato che ho capito che stavi dormendo. Frittella sta anche peggio. È finito contro un ramo ed è caduto di sella. Le sue grida avrebbero dovuto svegliarti, ma tu non lo hai nemmeno sentito. Hai bisogno di fermarti e di dormire.»
«Io posso andare avanti fino a quando andrai avanti tu» sbadigliò lei.
«Bugiarda» disse lui. «Tu continua pure, se vuoi agire da stupida, ma io mi fermo. Faccio il primo turno di guardia. Tu mettiti a dormire.»
«E Frittella?»
Gendry indicò. Frittella era a terra, raggomitolato nel suo mantello sopra un mucchio di foglie bagnate, e già russava sommessamente. In mano, teneva ancora una fetta di formaggio: sembrava essersi addormentato tra un morso e l’altro.
Non aveva senso discutere, Arya se ne rese conto. Gendry aveva ragione. “Anche i Guitti dovranno dormire” disse a se stessa, sperando che fosse davvero così. Era talmente sfinita che perfino scendere di sella fu uno sforzo enorme. Prima di trovare un posto sotto un leccio, si ricordò di legare il cavallo. Il terreno era duro e umido. Arya si domandò quanto altro tempo sarebbe dovuto passare prima di poter dormire nuovamente in un vero letto, con una cena calda e un fuoco accanto. L’ultima cosa che fece prima di chiudere gli occhi fu sguainare la spada, deponendola accanto a sé.
«Ser Gregor» bisbigliò, sbadigliando. «Dunsen, Polliver, Raff Dolcecuore, Messer Sottile… Messer Sottile e il Mastino… Il Mastino…»
Fece sogni rossi, selvaggi. Sogni popolati dai Guitti, per lo meno quattro: un lyseniano pallido, uno scuro, brutale individuo del porto di Ibben armato d’ascia, il dothraki pieno di cicatrici che chiamavano Iggo e un dorniano il cui nome lei non aveva mai saputo. Vennero avanti, sempre più avanti, cavalcando nella pioggia con addosso maglie di ferro arrugginite e cuoio fradicio, spade e asce che sbattevano contro le selle. Pensavano di darle te caccia, Arya questo lo sapeva con la strana, assoluta certezza dei sogni. Solo che si sbagliavano.
Era lei a dare la caccia a loro.
Nel sogno, non era affatto una ragazzina: era un lupo enorme, poderoso. Emerse dalla foresta proprio di fronte a loro, mostrava le zanne con un ringhio cupo e minaccioso e percepiva il tanfo crudo della paura degli uomini e dei cavalli. L’animale del lyseniano s’impennò e nitrì di terrore. I cavalieri urlarono gli uni con gli altri nel linguaggio dell’uomo. Ma prima che potessero reagire, altri lupi volarono fuori dalle tenebre e dalla pioggia. Un unico grande branco, predatori magri, bagnati e silenti.
Il combattimento fu breve ma sanguinoso. L’uomo di Ibben crollò senza nemmeno aver potuto prendere la sua ascia, quello scuro cadde incoccando una freccia, l’uomo pallido di Lys cercò di fuggire. I lupi gli saltarono addosso, avventandosi su di lui da tutti i lati. Le loro fauci si chiusero sulle gambe del suo cavallo, squarciando la gola del cavaliere nel momento stesso in cui cadde al suolo.
L’uomo con le campanelle nei capelli fu l’unico ad affrontarli. Il suo cavallo colpì con gli zoccoli la testa di una lupa. Mulinando il suo ricurvo dente di metallo, il guerriero squarciò il ventre di un’altra lupa dividendola in due, i suoi capelli tintinnavano lievi.
Piena di furore, Arya gli saltò sulla schiena, scaraventandolo giù di sella faccia avanti. Nella caduta, le sue zanne si serrarono attorno al braccio armato, denti che dilaniavano cuoio e lana e carne soffice. All’impatto, lei ebbe un sussulto indietro, staccandogli di netto l’arto dalla spalla. Scosse il braccio mutilato da una parte all’altra, sempre stringendolo tra le fauci, e lanciando fontane di rosso sangue caldo nella pioggia nera.
TYRION
Si risvegliò al cigolare di vecchi cardini di ferro.
«Chi è?» gorgogliò. Per lo meno, anche se cavernosa e raschiante, la voce gli era tornata. La febbre continuava a tormentarlo, e Tyrion aveva perso il senso del tempo. Quanto a lungo aveva dormito questa volta? Era così debole, così maledettamente debole.
«Chi è?» ripeté, più forte.
Dalla porta aperta dilagava il chiarore di una torcia, ma all’interno della stanza l’unica sorgente di luce era il mozzicone di candela accanto al letto.
Una forma andò verso di lui. Tyrion ebbe un tremito. Quello era il Fortino di Maegor, e là dentro ogni servo era sul libro paga della regina. Là dentro, ogni visitatore poteva essere uno dei tentacoli di Cersei, inviato a finire il lavoro che ser Mandon Moore, cavaliere delle Spade Bianche, aveva lasciato incompiuto sul fiume delle Rapide nere.
Un uomo entrò nell’alone luminoso della candela, diede un’occhiata al volto terreo del Folletto e fece un sogghigno. «Ti sei tagliato facendoti la barba, giusto?»
Le dita di Tyrion seguirono il percorso del grande solco che da sopra un occhio calava fino alla mandibola, scavalcando quello che rimaneva del naso. «Con un rasoio bello grosso, paurosamente affilato, certo.»
I capelli neri come il carbone di Bronn erano lavati di fresco e pettinati all’indietro, rivelando i tratti duri del suo volto. Indossava stivali alti di soffice cuoio lavorato, un’ampia cintura con borchie d’argento massiccio e un mantello di seta verde chiaro. Di traverso al farsetto di lana grigia, in diagonale, una catena fiammeggiante era ricamata con vivido filo verde.
«Dove ti eri cacciato?» mormorò Tyrion. «Ho chiesto di te… Sarà stato una settimana fa.»
«Quattro giorni fa, direi io» rispose il mercenario. «E sono stato qui due volte, trovando te morto nel limbo.»
«Non sono morto. Per quanto la mia cara sorella abbia provato a farmi fuori.» Forse non avrebbe dovuto dirlo a voce così alta, ma Tyrion aveva cessato di essere cauto. Dietro il tentativo di ucciderlo da parte di ser Mandon, c’era la mano di Cersei. Se lo sentiva nelle viscere. «Cos’è quella bruttura che porti sul petto?»’
«Il mio emblema di cavaliere.» Bronn sogghignò di nuovo. «Una catena fiammeggiante, verde su campo verde fumoso. Per ordine del lord tuo padre, io adesso sono ser Bronn delle Acque Nere, Folletto. E vedi di non dimenticarlo.»
Tyrion si puntellò con le mani sul materasso di piume e si spinse all’indietro di poco, premendosi contro i cuscini. «Sono stato io a prometterti il cavalierato, ricordi?»
Quel per ordine del lord tuo padre non gli era piaciuto affatto. Lord Tywin aveva sprecato pochissimo tempo. Rimuovere il figlio dalla Torre del Primo Cavaliere e investire se stesso di quel titolo era un messaggio chiaro per tutti. E questo di Bronn era un altro.