Arya bevve a sua volta. Dopo interi giorni passati a dissetarsi da torrenti e pozzi, e poi dall’acqua fangosa del Tridente, la birra le parve deliziosa quanto i piccoli sorsi di vino che il lord suo padre le permetteva di gustare ogni tanto. L’odore che usciva dalla cucina le stava facendo venire l’acquolina in bocca, ma continuava a essere la barca ormeggiata là fuori a dominare i suoi pensieri. “Condurla sarà più difficile che rubarla. Se aspettiamo fino a quando tutti dormono… ”
Il ragazzo che serviva riapparve, portando grandi forme rotonde di pane. Arya ne staccò un pezzo e se lo cacciò inbocca, famelica. Lo trovò duro da masticare, la mollica spessa e asciutta, la crosta bruciata sul fondo.
Nel momento in cui lo assaggiò, Frittella fece una smorfia. «Pane cattivo» commentò. «Troppo duro, e anche bruciato.»
«È meglio quando c’è il brodo per inzupparcelo» disse Lem.
«No, invece» fece Anguy. «Ma almeno non ti ci spezzi i denti contro.»
«O lo mangi o ti tieni la fame» disse il marito. «Cos’è, ti sembro forse un qualche fottuto fornaio? Vorrei vedere te a fare il pane.»
«Potrei farlo io, il pane» disse Frittella, «È facile. Avete messo troppa acqua nella pasta. Per questo è così dura.» Bevve un altro sorso di birra e si mise a parlare con amore di pani e dolci e tartine, tutte le cose che adorava. Arya roteò gli occhi.
Tom andò a sedersi di fronte a lei. «Pulcino» le disse «o Arry, o quale che sia il tuo vero nome, questo è per te.» Piazzò un lercio pezzo di pergamena sul tavolo di legno, in mezzo a loro.
Lei l’osservò con sospetto. «Che cos’è?» chiese.
«Tre dragoni d’oro. Dobbiamo comprare quei cavalli.»
Arya gli gettò uno sguardo torvo. «Ma sono i nostri cavalli.»
«Vale a dire li avete rubati voi, giusto? Non c’è vergogna in questo, ragazzina. La guerra rende ladro l’uomo onesto.» Tom tamburellò il dito sulla pergamena. «Ti pago un ricco prezzo. Più del valore di qualsiasi cavallo, a dire il vero.»
Frittella prese la pergamena e la dispiegò. «Ma qui non c’è oro» si lamentò ad alta voce. «È solo roba scritta.»
«Sì» disse Tom «e di ciò mi dolgo. Ma dopo la guerra, intendiamo rimborsare, avete la mia parola di uomo del re.»
Arya spinse la panca indietro e si alzò in piedi. «Voi non siete uomini del re, siete predoni.»
«Se tu avessi incontrato dei predoni veri, sapresti che loro non pagano, nemmeno con un pezzo di carta. Non è per noi stessi che prendiamo i vostri cavalli, piccola, è per il bene del reame, per muoverci più rapidamente e combattere le battaglie che è necessario affrontare. Le battaglie del re. Ti stai forse opponendo al re?»
Adesso, la stavano guardando tutti: l’arciere, il grosso Lem, il marito, con la sua faccia butterata e gli occhi troppo mobili. Perfino Sharna, in piedi sulla porta della cucina, la stava guardando.
“Ce li prenderanno comunque, i cavalli” si rese conto Arya. “Qualsiasi cosa io dica. A Delta delle Acque saremo costretti ad andarci a piedi, a meno che…”
«Non vogliamo nessuna carta.» Con un colpo secco, Arya spazzò via la pergamena dalle mani di Frittella. «Potete avere i nostri cavalli in cambio della barca legata al molo. Ma solo se ci mostrerete come si fa a portarla.»
Tom Settecorde la guardò per un momento, poi la sua bocca larga si deformò in un sogghigno poco rassicurante. Si mise a ridere. Anche Anguy si mise a ridere, e poi tutti gli altri: Lem Mantello di limone, Sharna, il marito, perfino il ragazzo che serviva, il quale era emerso da dietro i barili con sotto il braccio una balestra. Arya voleva urlare in faccia a tutti loro, invece cominciò a sorridere…
«Uomini a cavallo!» Il grido di Gendry era stridulo dalla tensione. La porta si spalancò e lui entrò a valanga. «Soldati» ansimò. «Arrivano dalla strada che costeggia il fiume, almeno una dozzina.»
Frittella balzò in piedi a sua volta, rovesciando il bicchiere di birra. In compenso, Tom e gli altri rimasero imperturbabili.
«Non c’è ragione di versare tutta quella buona birra sul pavimento» disse Sharna. «Torna a sederti e datti una calmata, ragazzo, che adesso arriva il coniglio. Anche tu, ragazzina. Qualsiasi male vi è stato fatto, è finito e non c’è più e siete con gli uomini del re adesso. Vi terremo al sicuro quanto meglio si può.»
Per tutta risposta, Arya spostò la mano destra dietro la schiena, all’impugnatura della spada. Riuscì a estrarre metà della lama, poi Lem le afferrò il polso.
«Niente più spade sguainate, adesso» intimò. Le torse il polso fino a costringerla ad abbandonare la presa. Le sue dita erano dure, callose, spaventosamente forti.
“Di nuovo!” il pensiero folgorò Arya. “Sta accadendo di nuovo! Come in quell’orribile villaggio sull’Occhio degli Dèi, con Chiswyck e Messer Sottile e la Montagna che cavalca.”
Le avrebbero rubato la spada e l’avrebbero fatta diventare nuovamente un topo. La sua mano libera si serrò attorno al manico del suo boccale metallico. Arya lo fece vorticare, pestandolo dritto in faccia a Lem. La birra schizzò fuori. Arya sentì il setto nasale di Lem che si spezzava con uno scricchiolio, tra schizzi di sangue. L’uomo grande e grosso ruggì di dolore, portandosi le mani al volto. E lei fu libera.
«Correte!» urlò, schizzando verso la porta.
Ma Lem le fu addosso un’altra volta, un passo delle sue lunghe gambe era pari a tre dei passi di Arya. Lei si contorse, scalciò. Niente da fare, Lem la sollevò di peso da terra senza alcuno sforzo, tenendola sospesa in aria, mentre il sangue continuava a colargli lungo la faccia.
«Falla finita, piccola stupida!» le urlò, scuotendola avanti e indietro. «Falla finita subito!»
Gendry si mosse per aiutarla, ma Tom Settecorde gli sbarrò la strada, daga in pugno.
E poi fu troppo tardi per fuggire. Da fuori, Arya udì il suono degli zoccoli di molti cavalli, e le voci di molti uomini. Un momento dopo, un guerriero fece ingresso nella locanda, un tyroshi addirittura più grosso di Lem, con una folta, enorme barba tinta di verde brillante che stava ricrescendo grigia alla radice. Dietro di lui vennero due balestrieri che reggevano un quarto uomo ferito. E poi altri…
Arya non aveva mai visto una banda più stracciona di quella, ma non per questo le spade, le asce e gli archi di cui erano armati erano meno temibili. Nell’entrare, uno o due di loro le allungarono sguardi incuriositi, ma nessuno disse una parola. Un uomo con un occhio solo, con in testa un elmo arrugginito, annusò l’aria e sogghignò. Un arciere dai capelli gialli e stopposi ululò che voleva della birra. Dietro di loro entrò un individuo con un elmo a cresta di leone, e poi un vecchio che zoppicava, e poi un mercenario di Braavos, e poi…
«Harwin?» quello di Arya fu appena un sussurro.
Era lui! Sotto la barba, sotto i capelli incrostati, c’era la faccia del figlio di Hullen, il mastro dei cavalli di Grande Inverno. Harwin che tanto tempo prima, nel cortile del castello, conduceva il suo pony per le briglie, con lei in sella che correva la quintana assieme a Jon e a Robb; Harwin che beveva sempre troppo alle feste del raccolto… Era più magro, più indurito, e a Grande Inverno non aveva mai avuto la barba, ma era lui… Uno degli uomini del lord suo padre.
«Harwin!» Contorcendosi, Arya si gettò in avanti, cercando di liberarsi dalla stretta di ferro di Lem. «Sono io» gli gridò. «Harwin, sono io! Mi riconosci, non è vero?» Le lacrime sgorgarono e Arya si ritrovò a piangere come un’infante, come una stupida ragazzina da niente. «Harwin, sono io!»
Gli occhi di Harwin si spostarono dal viso di lei all’emblema dell’uomo scuoiato di Forte Terrore sul suo farsetto.
«Come fai a conoscermi?» disse, la fronte corrugata dal sospetto. «L’uomo scuoiato… chi sei, un qualche piccolo servo del lord sanguisuga?»