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«Aghi», risposi, distogliendo lo sguardo da quello infilato sul dorso della mia mano. Mi concentrai su una piastrella della parete che mancava e cercai di respirare a fondo malgrado il male alle costole.

«Ha paura di un ago», mormorò fra sé, scuotendo il capo. «Finché si tratta di un vampiro sadico intenzionato a torturarla, nessun problema, scappa a conoscerlo. Una flebo, invece...».

Alzai gli occhi al cielo. Era l’unica reazione che potessi concedermi senza sentire male. Decisi di cambiare discorso.

«E tu, cosa ci faresti, qui?».

Mi fissò, prima confuso, poi imbarazzato. Aggrottò le sopracciglia. «Vuoi che me ne vada?».

«No!», protestai, terrorizzata al solo pensiero. «No... volevo dire, come hai giustificato a mia madre la tua presenza? Devo preparare un alibi prima che torni».

«Ah», tirò un sospiro e rilassò la fronte, che tornò liscia come il marmo. «Sono venuto a Phoenix per farti ragionare e convincerti a tornare a Forks». I suoi occhioni erano talmente candidi e sinceri che riuscì quasi a darla a bere anche a me. «Tu hai accettato di incontrarmi, sei uscita per raggiungere l’albergo in cui alloggiavo assieme a Carlisle e Alice, ovviamente sono venuto qui con il permesso e la guida dei miei genitori...», disse per sottolineare la sua virtù irreprensibile. «Ma salendo le scale per raggiungere la mia camera hai messo un piede in fallo, e... be’, il resto lo sai. Non c’è bisogno che ricordi altri dettagli: hai un’ottima scusa per essere un po’ confusa sui particolari».

Ci pensai per qualche istante. «Ma c’è qualcosa che non torna. Per esempio, nessuna finestra rotta».

«Non proprio», rispose. «Alice si è lasciata un po’ prendere la mano, mentre fabbricava le prove. Ci siamo occupati di tutto con molto scrupolo; se volessi, potresti addirittura denunciare l’albergo. Non devi preoccuparti di nulla». Mi sfiorò la guancia con la più leggera delle carezze. «Devi badare soltanto a guarire, ora».

Non ero così annebbiata dal dolore e dai tranquillanti da non reagire al suo tocco. Il bip del monitor accelerò frenetico: adesso anch’io potevo sentire le bizze del mio cuore.

«Sarà davvero imbarazzante», mormorai tra me e me.

Lui soffocò una risata e mi rivolse uno sguardo pensieroso. «Mmm, chissà se...».

Si chinò lentamente; le pulsazioni iniziarono a divenire più veloci ancor prima che mi sfiorasse le labbra. Ma quando le sue premettero sulle mie, con il massimo della dolcezza, il bip si arrestò del tutto.

Si allontanò di scatto, e l’ansia sparì dal suo viso soltanto quando il monitor accertò che il mio cuore aveva ripreso a battere.

«A quanto pare dovrò prestare molta più attenzione del solito», si lamentò.

«Io non avevo finito di baciarti», protestai. «Non costringermi ad alzarmi».

Sorrise, e si chinò di nuovo leggero sulle mie labbra. Il monitor impazzì.

Poi si irrigidì e si staccò da me.

«Credo di aver sentito tua madre», disse, con un nuovo sorriso.

«Non andartene», strillai, colta da un’ondata di panico irrazionale. Non volevo che si allontanasse, non volevo che sparisse di nuovo.

In un istante si accorse del terrore nei miei occhi. «Non me ne andrò», promise, serio, poi ammiccò: «Farò un sonnellino».

Dalla seggiola di plastica dura accanto al letto, si spostò sulla poltroncina reclinabile di finta pelle che stava ai miei piedi, abbassò lo schienale e chiuse gli occhi. Era perfettamente immobile.

«Non dimenticarti di respirare», bisbigliai, sarcastica. Lui fece un respiro profondo, a occhi chiusi.

Riuscivo anch’io a sentire mia madre. Stava parlando con qualcuno, forse un’infermiera, e sembrava stanca e fuori di sé. Avrei voluto saltare giù dal letto e correre da lei per calmarla e giurarle che andava tutto bene. Ma non ero in condizione di muovermi, perciò attesi, impaziente.

La porta si aprì appena e lei sbirciò nella stanza.

«Mamma!», sussurrai, con voce piena d’amore e sollievo.

Vide la sagoma immobile di Edward sulla poltrona e si avvicinò al mio letto in punta di piedi.

«Non se ne va mai, eh?», mormorò tra sé.

«Mamma, che bello vederti!».

Si chinò ad abbracciarmi delicatamente, e sentii il calore delle lacrime sulle mie guance.

«Bella, ero cosi agitata!».

«Mi dispiace, mamma. Adesso è tutto a posto, tutto okay».

«Sono contenta di vedere che apri gli occhi, finalmente». Si sedette sul bordo del letto.

All’improvviso mi resi conto di aver perso la cognizione del tempo. Non avevo idea di quando fosse successo tutto. «Quanto a lungo sono rimasti chiusi?».

«È venerdì, cara, non sei stata in te per un bel po’».

«Venerdì?». Ero sbalordita. Cercai di ricordare in che giorno... ma non volevo pensarci.

«Hanno dovuto riempirti di sedativi, piccola... eri piena di ferite».

«Lo so». Le sentivo ancora.

«Per fortuna il dottor Cullen era lì. È davvero un brav’uomo... anche se è molto giovane, certo. E somiglia più a un modello che a un medico...».

«Hai conosciuto Carlisle?».

«E Alice, la sorella di Edward. Che cara ragazza».

«Lo è davvero», risposi, con tutta sincerità.

Diede un’occhiata a Edward sprofondato nella poltroncina, sempre con gli occhi chiusi. «Non mi avevi detto di avere amici così cari, a Forks».

Cercai di muovermi e lanciai un gemito.

«Cosa ti fa male?», chiese lei ansiosa, voltandosi di nuovo verso di me. Sentii lo sguardo di Edward sul viso.

«Tutto bene. Devo solo ricordarmi di restare immobile». Edward tornò al suo falso sonnellino.

Sfruttai la distrazione momentanea di mia madre per tenere il discorso lontano dal mio comportamento tutt’altro che limpido: «Dov’è Phil?».

«In Florida. Ah, Bella, non indovinerai mai! Proprio quando stavamo per andarcene è arrivata la buona notizia!».

«Ha firmato un contratto?».

«Sì, come hai fatto a indovinare? Con i Suns, ci credi?».

«Grande», risposi con tutto l’entusiasmo che potevo, malgrado non avessi la minima idea di cosa ciò significasse.

«E vedrai che Jacksonville ti piacerà», aggiunse, mentre la seguivo con sguardo vacuo. «Mi ero preoccupata un po’, quando Phil aveva iniziato a parlare di Akron, con la neve e tutto il resto, perché sai quanto odio il freddo... ma Jacksonville! C’è sempre il sole, e l’umidità, in fondo, non è così tremenda. Abbiamo trovato una casetta bellissima, gialla con le finiture bianche, una veranda come quelle dei vecchi film, una quercia enorme, e poi è a pochissimi minuti dal mare, e in più avrai un bagno tutto per te...».

«Aspetta, mamma!». Edward teneva gli occhi chiusi, ma era troppo teso per sembrare addormentato. «Cosa stai dicendo? Non verrò in Florida. Io vivo a Forks».

«Ma non c’è più motivo, sciocca», disse ridendo. «Phil sarà molto più presente, d’ora in poi. Ne abbiamo parlato molto e abbiamo deciso che nelle trasferte faremo un compromesso: passerò metà del tempo con te e metà con lui».

«Mamma». Ero incerta su quale fosse il modo più diplomatico per parlarle. «Io voglio vivere a Forks. A scuola mi sono ambientata, ho un paio di amiche...», la parola “amiche” la fece immediatamente voltare verso Edward, perciò provai a cambiare direzione, «...e Charlie ha bisogno di me. È tutto solo, lassù, e non sa neanche cucinare».

«Vuoi restare a Forks?», chiese, sbigottita. L’idea, per lei, era inconcepibile. Poi i suoi occhi scivolarono di nuovo su Edward: «Perché?».

«Te l’ho detto... la scuola, Charlie. Ahi!». Mi ero stretta nelle spalle. Cattiva idea.

Si affannò in cerca di una zona del mio corpo che potesse sfiorare senza farmi male. Si accontentò della fronte, lì non c’erano bende né cerotti.

«Bella, piccola mia, tu odi Forks», provò a rammentarmi.

«Non è così male».

Scura in viso, stavolta guardò apertamente prima me, poi Edward.