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«Co... come fai a conoscere il mio nome?», balbettai.

Fece una risata leggera e ammaliante.

«Oh, penso che tutti sappiano come ti chiami. La città intera ti stava aspettando».

Feci una smorfia. Sapevo che più o meno era la verità.

«No», insistetti, come una stupida, «intendevo, come mai mi hai chiamato Bella».

Sembrò confuso. «Preferisci che ti chiami Isabella?».

«No, Bella mi piace», risposi io. «Ma Charlie - voglio dire, mio padre - quando parla di me credo mi chiami Isabella: a quanto pare qui tutti mi conoscono con quel nome». Cercavo di spiegarmi, ma mi sentivo una perfetta cretina.

«Ah». Lasciò cadere il discorso. Io distolsi lo sguardo, goffamente.

Grazie al cielo il professor Banner iniziò la lezione proprio in quel momento. Cercai di concentrarmi, mentre spiegava l’esperimento del giorno. I vetrini erano in ordine sparso. Lavorando a coppie, dovevamo separare ed etichettare epitelio di cipolla in base alla fase di mitosi in cui si trovavano. Senza usare libri. Avevamo venti minuti di tempo.

«Iniziate pure», disse il professore.

«Prima le donne, collega?», mi chiese Edward. Alzai lo sguardo e vidi un sorriso beffardo tanto bello da catturarmi come un’idiota.

«Se vuoi comincio io». Il sorriso si spense; evidentemente si stava chiedendo se fossi nelle mie piene facoltà mentali.

«No, faccio io», risposi rossa di vergogna.

Volevo pavoneggiarmi, almeno un po’. Avevo già fatto quell’esperimento e sapevo cosa cercare. Sarebbe stato facile. Sistemai il primo vetrino sotto il microscopio e in un baleno misi a fuoco l’ingranditore. Per qualche istante studiai il reperto.

Ero sicura della mia analisi. «Profase».

«Ti dispiace se do un’occhiata?», chiese lui, intanto che rimuovevo il vetrino dal microscopio. Mentre parlava, mi prese la mano per fermarmi. Le sue dita erano fredde come il ghiaccio, come se prima di entrare in classe le avesse tenute dentro un cumulo di neve. Ma non fu per quello che mi staccai subito dalla sua presa. Quando mi aveva toccato, avevo sentito quasi una fitta alla mano, come fossimo stati percorsi da una scintilla di corrente elettrica.

«Scusa», mormorò, ritirando immediatamente la mano. Però rimase piegato sul microscopio. Lo guardai, ancora scossa, mentre esaminava il vetrino, più velocemente di me.

«Profase», concordò, e lo scrisse in bella grafia nella prima casella del nostro foglio di lavoro. Estrasse subito il secondo reperto e gli diede uno sguardo distratto.

«Anafase», mormorò, scrivendolo immediatamente.

Io feci l’indifferente. «Posso?».

Con un sorrisetto mi passò il microscopio.

Guardai nel mirino con impazienza e restai delusa. Maledizione, aveva indovinato.

«Numero tre?», allungai una mano senza guardarlo.

Mi diede il vetrino. Sembrava attento a non sfiorare di nuovo la mia pelle.

Ci gettai un rapido sguardo, più frettoloso che potei.

«Interfase». Gli passai il microscopio ancora prima che potesse chiedermelo. Lui diede un’occhiata svelta e scrisse ciò che avevo detto. Avrei potuto annotarlo anch’io, ma la sua grafia nitida, elegante, mi intimidiva. Non volevo rovinare la pagina con i miei scarabocchi maldestri.

Terminammo molto prima di tutti gli altri. Mike e la sua compagna non facevano che confrontare due vetrini, e un’altra coppia teneva il libro aperto sotto il tavolo.

Perciò non mi restava altro da fare che tentare di non guardarlo... senza riuscirci. Alzai gli occhi e c’era lui a fissarmi, con quella solita aria di inspiegabile frustrazione. All’improvviso capii quale fosse la leggera differenza che avevo percepito nel suo viso.

«Porti le lenti a contatto?», mi uscì di bocca, senza pensarci.

Lui sembrò spiazzato dalla mia domanda inaspettata. «No».

«Oh. Mi sembrava di avere notato qualcosa di diverso nei tuoi occhi».

Si strinse nelle spalle e guardò altrove.

A dire la verità, ero sicura che ci fosse qualcosa di diverso. Avevo un ricordo molto vivo dell’ultima volta che mi aveva fulminata con lo sguardo, con quel nero cupo che spiccava sullo sfondo del suo colorito pallido e dei capelli ramati. Oggi la tonalità era completamente diversa: uno strano ocra più scuro di una caramella ma con i riflessi dorati. Non capivo come fosse possibile, a meno che per qualche motivo non mi avesse mentito sulle lenti a contatto. Oppure Forks mi stava letteralmente facendo impazzire.

Abbassai lo sguardo. Di nuovo teneva i pugni serrati.

Allora il professor Banner si avvicinò al nostro tavolo a chiederci perché non stessimo lavorando. Dalle nostre spalle lanciò un’occhiata alla tabella completata, poi iniziò a controllare con attenzione le risposte una per una.

«Scusa, Edward, perché non hai lasciato usare il microscopio anche a Isabella?», chiese il professor Banner.

«Bella», corresse lui, automaticamente. «A dire la verità, è stata lei a identificarne tre su cinque».

Ora il professor Banner guardava me, con espressione scettica.

«Hai già fatto prima questo esperimento?», chiese.

Io feci un sorriso timido. «Non con radici di cipolla».

«Embrioni di coregone?».

«Sì».

Il professor Banner fece un cenno d’assenso. «A Phoenix frequentavi le lezioni del programma avanzato?».

«Sì».

«Bene», aggiunse, dopo un istante, «penso sia il caso che voi due lavoriate assieme». Bofonchiò qualcos’altro mentre si allontanava. Quando se ne fu andato, ricominciai a scarabocchiare sul quaderno.

«Peccato per la neve, eh?», chiese Edward. Avevo la sensazione che si sentisse in dovere di parlare con me. La paranoia mi assalì di nuovo. Era come se avesse ascoltato la mia conversazione con Jessica, a pranzo, e volesse dimostrarmi che sbagliavo.

«Non direi». Risposi con sincerità, anziché fingere di essere normale, come tutti gli altri. Ero ancora impegnata a liberarmi di quella stupida sensazione di sospetto e non riuscivo a concentrarmi.

«Il freddo non ti piace». Non era una domanda.

«Neanche l’umido».

«Per te dev’essere difficile vivere a Forks», concluse.

«Non lo immagini neppure», mormorai, cupa.

Sembrava affascinato dalle mie parole, ma il motivo mi sfuggiva. Il suo viso mi distraeva così tanto che cercavo di non fissarlo più di quanto mi imponessero le buone maniere.

«Ma allora, perché sei venuta qui?».

Nessuno me l’aveva mai chiesto, non in maniera così diretta.

«È... una storia complicata».

«Penso di poterla capire», insistette.

Feci una lunga pausa, poi commisi l’errore di incrociare di nuovo il suo sguardo. I suoi occhi d’oro mi confondevano, e risposi senza pensarci.

«Mia madre si è risposata», dissi.

«Non sembra così complicato», ribatté lui, ma si fece improvvisamente comprensivo. «Quando è stato?».

«Settembre». La mia voce suonò triste anche alle mie orecchie.

«E lui non ti piace», dedusse Edward, ancora con un tono gentile.

«No, Phil va bene. Forse troppo giovane, ma un bel tipo».

«Perché non sei rimasta con loro?».

Non riuscivo a capire il motivo del suo interessamento, ma continuava a fissarmi con quello sguardo penetrante, quasi che la banale storia della mia vita fosse una questione di importanza capitale.

«Phil viaggia molto. Gioca a baseball. È un professionista». Feci un mezzo sorriso.

«Lo conosco?», chiese, sorridendo anche lui.

«Probabilmente no. Non è un bravo professionista. Solo serie minori. Cambia squadra di continuo».

«E tua madre ti ha spedita qui per poterlo seguire». Nemmeno questa suonava come una domanda, sembrava più una conclusione.

Ebbi un invisibile fremito. «No, non è stata lei a spedirmi qui. Sono stata io».

Aggrottò le sopracciglia. «Non capisco», ammise, e ne sembrava fin troppo preoccupato.

Tirai un sospiro. Perché gli stavo raccontando i fatti miei? Lui continuava a scrutarmi con ovvia curiosità.