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Bob Shaw

Un milione di domani

1

Durante tutta la prima parte della mattinata, Carewe rimase tranquillamente seduto alla scrivania, senza fare assolutamente niente. Non risentiva degli effetti fisici della sbornia recente (provvedeva a eliminarli la capsula all’ossigeno e all’acido ascorbico presa prima di colazione), ma avvertiva una lieve tensione, lo spettro di un tremito che gli percorreva i nervi, e tutto questo gli diceva che la natura non si lascia ingannare tanto facilmente. Intuiva oscuramente che sarebbe stato meglio pagare lo scotto del mal di testa e della nausea.

“Ho quarant’anni e certe cose non le sopporto più come una volta” pensò. “Uno di questi giorni dovrò farmi disattivare.” D’istinto si toccò i peli sopra le labbra e sul mento. Erano lunghi cinque millimetri, una lunghezza elegante per un attivo della sua età, e offrivano una resistenza quasi metallica alla pressione delle dita: erano file di minuscoli interruttori che bastava premere per ottenere piacere/dolore/senso di sicurezza. “Non crepare” disse fra sé Carewe, ripetendo lo slogan, “fatti disattivare.”

Guardò attraverso la parete trasparente dell’ufficio. Dietro i trapezoidi scintillanti della città, le Montagne Rocciose erano di un candore immacolato, pulsavano a tempo con i battiti del suo cuore. Quel mattino avrebbe dovuto esserci più neve, ma i tecnici del controllo meteorologico erano intervenuti e il cielo, al di sopra dei picchi innevati, era stranamente vivo. La luce del sole scivolava e rimbalzava sulle membrane intangibili dei campi di controllo, rese visibili dalle particelle di ghiaccio che contenevano. Agli occhi depressi di Carewe, il cielo sembrava solo un intestino grigio e malconcio. Girò la testa, cercò di concentrarsi su una pila di schede per il computer, e in quel momento il telepres emise il suo squillo dolce. La testa di Hyron Barenboim, presidente della Farma Incorporated, si solidificò nell’aria, fluttuando.

— Ci sei, Willy? — Due occhi incorporei lo cercarono alla cieca. — Vorrei vederti.

— Eccomi qui, Hy. — Carewe spinse da parte le schede prima di accendere il circuito visivo: era lavoro che avrebbe dovuto sbrigare già da due giorni.

— Cosa posso fare per te?

Gli occhi di Barenboim si puntarono sulla faccia di Carewe, con un sorriso. — Non al telepres, Willy. Vieni nel mio ufficio tra cinque minuti. Se puoi liberarti, naturalmente.

— Certo che posso.

— Bene, ragazzo mio. Voglio discutere di una cosa con te, in privato. — La faccia glabra di Barenboim svanì nel nulla, lasciando Carewe in preda a un vago allarme. Il presidente gli era parso amichevole (Carewe l’aveva sempre trovato amichevole, nonostante quello che dicevano di lui quasi tutti i dipendenti della Farma), ma gli aveva dato la netta impressione di avere in mente qualcosa. E a Carewe non andavano i contatti personali con vecchi freddi, nemmeno su una base puramente formale. Per lui, un secolo di età costituiva una barriera invalicabile: al di sotto dei cento anni, era ancora possibile considerare un “freddo” come un normale essere umano. Ma avere a che fare con uno come Barenboim, che aveva compiuto da più di cinque anni il duecentesimo compleanno…

Si alzò, sempre più depresso, si specchiò nella parete riflettente dell’ufficio, si sistemò la tunica, si studiò. Alto, con le spalle ampie senza essere particolarmente atletico, capelli castani e faccia pallida, lievemente disperata, su cui una spruzzata di peli neri delineava una barba alquanto signorile: era abbastanza presentabile, anche se forse non somigliava all’immagine ideale di un contabile. Allora, perché gli dava fastidio parlare con freddi come Barenboim o il vicepresidente, Manny Pleeth? “Perché è ora che anche tu diventi freddo” gli rispose una voce interiore. “È ora che ti faccia disattivare, e non ti va che te lo ricordino. Sei ancora un attivo, Willy, e questo non vuol dire che tu ti dia molto da fare. Vuol solo dire che sei un attivo dal punto di vista dei freddi. Attivo!”

Accarezzandosi la barba contropelo, il che gli procurò una dolorosa irritazione al viso, uscì di corsa dall’ufficio e passò in zona ricezione. Si destreggiò tra i computer dell’amministrazione, che gli arrivavano alla cintura; salutò con un cenno della testa Marianne Toner, impegnata davanti alle sue macchine elettroniche, e superò il breve corridoio che portava alle stanze di Barenboim. L’occhio rotondo della porta sollevò la palpebra, lo riconobbe, e il pannello di legno lucido scivolò di lato. Entrò nel grande appartamento pieno di sole, in cui aleggiava sempre l’aroma del caffè. Barenboim, che stava esaminando documenti alla sua scrivania rosso-azzurra, gli sorrise, invitandolo a sedersi in poltrona.

— Rilassati un attimo, figliolo. Tra qualche secondo ci raggiungerà Manny. Voglio che ci sia anche lui.

— Grazie, Hy. — Soffocando la curiosità, Carewe si accomodò e studiò il suo principale. Barenboim era un uomo di dimensioni medie, con la fronte piatta e un po’ obliqua, arcate sopraccigliari marcate e un grosso naso rivolto all’insù. In contrasto con l’aspetto quasi scimmiesco della parte superiore del viso, bocca e mento erano piccoli, delicati. Le sue mani bianche, che adesso stavano rimettendo a posto documenti e schede perforate, erano glabre e leggermente paffute. Contrariamente a molti freddi della sua età, ci teneva a essere sempre in anticipo di qualche mese rispetto alla moda. “Sembra sui quarant’anni” pensò Carewe, “e invece ha più di due secoli. Ha tutti i diritti di chiamarmi figliolo. Rispetto a lui, io non sono ancora entrato nell’adolescenza.” Si toccò di nuovo la barba, e gli occhi di Barenboim danzarono nelle orbite. Carewe capì che il suo gesto automatico era stato notato e interpretato alla luce di un patrimonio di duecento anni d’esperienza. Capì anche che, muovendo gli occhi in modo tanto evidente, Barenboim gli stava dicendo che sapeva quello che lui stava pensando, e voleva fargli sapere che lo sapeva… Nel suo cervello, il senso di oppressione aumentò. Si agitò, irrequieto, si girò a guardare la parete. L’aria grigia stava ancora digerendo la tempesta di neve. Restò a fissare quella battaglia epica finché la porta che dava sull’ufficio adiacente annunciò che stava entrando il vicepresidente Pleeth.

Nei sei mesi da che lavorava alla Farma, Carewe aveva visto Manny Pleeth solo poche volte, e di solito da lontano. Era un freddo sulla sessantina che, a giudicare dall’aspetto giovanile, si era fatto disattivare attorno ai vent’anni. La sua faccia, come quella di tutti i freddi, era glabra; anzi, sembrava che fosse stata lisciata con la pietra pomice per eliminare anche la minima traccia di peli. La carnagione era rosa uniforme dall’attaccatura dei capelli alla gola, ed era striata di rosa anche la cornea dei suoi occhi azzurri. A Carewe vennero in mente certi personaggi dei fumetti che aveva visto nei programmi di storia della letteratura: un disegnatore avrebbe riprodotto il naso di Pleeth con una semplice curva a uncino, la bocca quasi priva di labbra con una linea curvata all’insù, a rappresentare l’espressione divertita che copriva i pensieri sconosciuti, inimmaginabili, che si nascondevano dietro la fronte liscia come plastica.

Pleeth indossava una tunica color ambra sopra la calzamaglia. L’unico ornamento era un ciondolo d’oro cesellato, a forma di sigaro, che portava al collo. Annuì in direzione di Carewe, muovendo la bocca in maniera quasi impercettibile, e prese posto a fianco di Barenboim. Rimase seduto in aria, apparentemente sospeso nel vuoto. In realtà, a sorreggerlo era la sedia magnetica Regina Vitt incorporata nella calzamaglia.

— Eccoci qui — disse immediatamente Barenboim, spingendo da parte i documenti e fissando Carewe con sguardo solenne, amichevole. — Da quanto tempo sei con la Farma, Willy?

— Sei mesi.

— Sei mesi… E ti sorprenderebbe sapere che in questo periodo Manny e io ti abbiamo sempre tenuto d’occhio?