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— Smettila, Will — disse lei.

— Smettere cosa?

— Smettila di fissarmi così in pubblico. — Le guance di Athene si colorirono leggermente.

— Non mi importa che gli altri mi vedano.

— Nemmeno a me, però mi fa uno strano effetto… quindi, smettila.

— Sei tu il capo — disse lui, fingendosi imbronciato. Athene gli prese la mano e la tenne stretta per tutto il resto del viaggio, fra sussulti e scrolloni. Per un attimo, lui provò la tentazione di sacrificare la felicità e la perfezione di quel momento, di tentare ancora una volta di convincerla della realtà dell’E.80 e di tutto quello che significava, ma la tentazione passò. Quella sarebbe stata la vacanza più meravigliosa di tutta la loro vita; e lui era sempre desideroso di scoprire l’Athene che sarebbe esistita, anche se solo per poco tempo, nella convinzione della sua assoluta fiducia negli aspetti non fisici del loro amore. La commedia sarebbe durata finché non fosse giunto il momento di tornare a Three Springs.

Quando scese dalla funivia, l’aria tonificante del lago lo investì di colpo. Aiutò Athene a saltare a terra. Decisero di percorrere a piedi la breve distanza che li separava dall’albergo, mandando avanti i bagagli sull’automezzo venuto a ricevere gli ospiti. Durante la passeggiata, Athene continuò a parlare, tranquilla, felice, ma la mente di Carewe, ora che l’evento cruciale era tanto vicino, era tutta presa da un senso di ansietà. E se l’E.80 non era il ritrovato meraviglioso che diceva Barenboim? Se lo avesse realmente disattivato?

All’albergo, sbrigò le formalità senza nemmeno accorgersi di cosa stava facendo. Sbagliò due volte nel seguire le frecce direzionali che, attivate dalla vicinanza della chiave, indicavano la strada per il loro appartamento. Dieci minuti dopo, in quella stanza che gli era ancora familiare, col paesaggio delle acque limpidissime sotto gli occhi, tolse la scatola nera dalla borsa e l’aprì. Athene stava appendendo i vestiti nell’armadio, però sentì lo scatto metallico e si voltò a guardarlo. Le ombre di un milione di domani danzarono sul suo viso.

— Nessuno ti obbliga — disse lei, mentre i suoi occhi assorbivano il fatto che la scatola conteneva due pistole ipodermiche assolutamente identiche, con i sigilli intatti.

— È giunto il momento, Athene. È il momento migliore.

— Sei sicuro, Will? — Athene esitò. — Non abbiamo figli.

— Non ne abbiamo bisogno. — Le porse la scatola. — E poi, ho preso la pillola la settimana scorsa, e potrebbero passare mesi prima che io riesca ancora a fare un figlio… Non voglio aspettare mesi. Il momento è adesso. Ora.

— Lei annuì, triste, e cominciò a spogliarsi. Sì, era molto giusto. Carewe appoggiò la scatola e si tolse i vestiti. Baciò Athene una volta sola, quasi freddamente, e le offrì di nuovo la scatola. Lei scelse la pistola più esterna, come lui era sicuro che avrebbe fatto, e spezzò il sigillo. Carewe le tese il polso. Athene appoggiò la pistola all’intreccio di vene blu sotto la sua pelle. Ci fu un sibilo. La sottile nube di vapore che entrò nei suoi tessuti gli procurò una sensazione di gelo. Poi Carewe prese l’altra pistola e ne sparò il contenuto nel polso di Athene.

“Adesso non invecchierà più” pensò lui più tardi, mentre giacevano avvinghiati sul divano ricoperto di seta. “Ma come farò a dirle che l’ho ingannata?”

4

Nei sogni, il suo corpo era fatto di vetro, e lui passava da una sequenza di eventi pericolosi a un’altra: era con le squadre Primitivi in Africa o nel Sudest asiatico, sputava sangue nella quarta spedizione umana su Venere, arrancava sul fondo del Pacifico in cerca di noduli di manganese. Vari tipi di distruzione minacciavano i suoi arti fragili, il suo corpo: pallottole, bombe, cadute, l’avanzata cieca di alberi a gomito che potevano ridurlo in polvere…

E Carewe, svegliandosi, aveva freddo, si sentiva solo; non bastava nemmeno la vicinanza di sua moglie a calmarlo. Capiva il significato dei sogni, ma non per questo erano meno terribili. Prima dell’avvento della biostasi, gli aveva spiegato una volta un insegnante, un gruppo di esseri umani e un gruppo di statuine di vetro possedevano cicli vitali del tutto diversi. Nel caso delle statuine, se ne rompeva qualcuna di anno in anno, finché non ne restava più nessuna; gli esseri umani, invece, arrivavano fino ai sessant’anni di media, e poi si estinguevano rapidamente. La scoperta dei farmaci biostatici significava che un uomo poteva aspettarsi una vita prolungata all’infinito, però per essere immortale doveva prendere alcune precauzioni. Un individuo capace, in potenza, di un’esistenza perenne, era “immortale”; ma bastava che l’immortale andasse a schiantarsi sul fianco di una montagna per morire. “Non abbiamo fatto altro” aveva concluso l’insegnante, “che diventare statuine di vetro.”

La responsabilità enorme di salvaguardare la propria vita terrorizzava Carewe. Morire a trent’anni, in un incidente aereo o in una gara automobilistica, era già brutto se significava perdere trent’anni di vita; però, se erano in ballo un migliaio d’anni o più, diventava impensabile. Fissando nel buio le acque scure del lago, capi un po’ meglio cosa significasse la frase “società bastarda”, coniata dal filosofo contemporaneo Osman. Significava un mondo in cui i tratti dominanti maschili erano definitivamente scomparsi. La guerra non esisteva più, fatta eccezione per le operazioni marginali delle squadre Primitivi; però, a più di due secoli di distanza dal primo atterraggio umano sulla Luna, Marte e Venere erano praticamente inesplorati. I pochi attivi pronti a lanciarsi in imprese del genere ricevevano scarsissimi incoraggiamenti dai gruppi dirigenti, tutti composti di freddi; e Carewe riusciva già a capire perché, anche se non aveva ancora perso la grande spinta biologica della virilità.

“Il futuro è pesante sulle nostre spalle” pensò. “Tutto qui.”

E i problemi del futuro immediato erano i più urgenti. L’alba stava già facendo svanire le stelle più fioche, il che significava che nel giro di poche ore sarebbero ripartiti per Three Springs; e non era ancora riuscito a raccontare ad Athene la verità sull’E.80. I tre giorni trascorsi a lago Orkney erano stati i giorni più belli dei loro dieci anni di matrimonio. Lui e Athene erano come due specchi posti l’uno di fronte all’altro. Fingendo una fede assoluta in lei, Carewe aveva creato un’immagine sublime di se stesso che rimbalzava da uno specchio all’altro (l’amore, diceva Osman, è ammettere il buongusto del partner). Ora gli si presentava la prospettiva di stravolgere lo specchio di Athene, di proiettare quel fuoco prezioso in un vuoto freddo da cui non sarebbe più riemerso, stando alle leggi della termodinamica emotiva.