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Mille cose. Potevi studiare a ripetizione una di quelle copertine, convinto di avere finalmente visto tutto, ma di solito trovavi sempre qualcosa che ti era sfuggita. Be’, io penso che la stampa di Brueghel sia proprio all’altezza delle vecchie copertine di Boy’s Life, e quando sono annoiato mi alzo, mi ci metto davanti, e cerco qualcosa di nuovo. L’altro articolo personale è una fotografia di Fay Wray in costume da giungla; una foto che mi piace moltissimo.

Il giorno dopo avere visto lo spettro di Marion, sedevo nel mio ufficio con la matita in mano, la punta rivolta verso il basso, apparentemente intento a studiare le carte sulla mia scrivania. Lavoro alla Promozione Vendite. Ho a che fare con le mie controparti dell’agenzia pubblicitaria; ogni tanto partecipo a qualche convegno o riunione sulla Costa Ovest, il che è un dubbio beneficio, ma se non altro mi permette di cambiare ambiente; e faccio una notevole varietà di cose legate alla vendita dei nostri articoli, prodotti cartacei di così tanti tipi che un uomo sano di mente non riuscirebbe mai a immaginarli tutti. Parecchia della roba che produciamo è effettivamente utile, e non sforniamo nulla di pericoloso, quindi per lo meno non mi vergogno di quello che faccio.

Ma in quel momento non stavo facendo niente. Avevo per la mente cose più importanti dei tovaglioli di carta. Per tutto il mattino, da che avevo aperto gli occhi, avevo fatto del mio meglio per pensare a ciò che era successo la sera prima, qualunque cosa fosse successa. A mezzogiorno mandai giù un boccone in fretta per avere il tempo di camminare (prima fino al Ferry Building all’inizio di Market Street, poi tra i moli coperti, con la Baia che a tratti appariva fra un molo e l’altro) e pensare ancora un po’, cercando di raggiungere qualche conclusione.

Ma non mi pareva di poter concludere molto. Più che altro, rivissi mentalmente l’esperienza, diverse volte. A titolo sperimentale, tentai di convincermi di avere solo immaginato, o sognato in maniera molto vivida, ciò che era successo, ma la differenza tra il sogno o l’immaginazione e la realtà la conoscono tutti: era successo davvero. Di ritorno alla mia scrivania, l’unica conclusione alla quale giunsi fu che in rare occasioni gli spettri appaiono sul serio.

Non lo avevo raccontato a nessuno, ovviamente, e non intendevo farlo; lo avrei detto solo a Jan. Non appena sceso dall’ascensore nell’atmosfera tanto concreta, tutta luci fluorescenti, macchine per scrivere elettriche e aria condizionata, della Crown Zellerbach, capii subito che non avrei cercato di convincere qualcuno di ciò che era accaduto la sera prima nel buio della nostra vecchia casa. E a colazione non ne parlai con Jan; avrei dovuto ripetermi, parlare e parlare, e non c’era tempo. Glielo avrei raccontato quella sera, e… Una storia fantastica. Sorrisi all’idea, ansioso di dirglielo. E ansioso, mi resi conto, di rivedere Jan. Ricordando il dopofilm della sera prima, quel giorno provavo molto calore e tenerezza per Jan, apprezzavo le sue buone qualità, mi facevano piacere persino i suoi difetti.

Il mio telefono squillò, e siccome stavo pensando a lei, era Jan: è così che vanno le cose, e lo sanno tutti. Dopo i saluti, lei disse: — Non dimenticare il party con gli Hurst, stasera.

— Sì, lo so. Me lo ricordavo. È una prospettiva piacevole.

— Anche per me. È da un po’ che non usciamo a divertirci.

Sorrisi e aprii un cassetto in basso, per appoggiare i piedi. — Non credo sia chic aspettare con tanta impazienza un cocktail party.

— Lo so. Soprattutto un party organizzato per raccogliere fondi. Nickie, ti ho chiamato perché Magnin sta pubblicizzando una svendita di vestiti in saldo. È una vera svendita, e io ho bisogno di un abito nuovo da sera. Qualcosa di semplice. Nero, suppongo. Un vestito che vada sempre. Però…

— Allora vallo a comperare.

— Be’, non sono sicura che possiamo permetterci…

— Quella che non possiamo permetterci è la roba da mangiare. Quindi comprati il vestito. Voglio sperimentare l’ondata di orgoglio che un uomo prova quando a un party tutti i maschi pizzicano il sedere a sua moglie.

— Ottimo. Il primo pizzicotto è tuo. Ci vediamo stasera.

Dopo il lavoro, sceso dall’autobus, tornai a casa a piedi, scrutando la città mentre salivo la collina di Buena Vista. Ero innamorato del mondo e di quel momento, il momento nel quale un bambino di quattro o cinque anni, accoccolato su un solo pattino, mi corse incontro senza nemmeno vedermi, concentrato com’era sul compito di non perdere l’equilibrio. Mi spostai di lato, felice del bambino e della serata che mi attendeva: mi piacciono i party di tutti i tipi, almeno come idea.

Sul portico mi fermai a riprendere fiato, ma solo per un istante o poco più, e salii i gradini della scala interna a due a due: dovevo cambiarmi, poi dovevamo attraversare in auto il Golden Gate Bridge e arrivare a Marin County. Sul pianerottolo strillai: — Sono a casa!

— E io sono qui! — rispose dal bagno la voce di Jan. Lei fece una pausa, poi aggiunse: — Ho paura di uscire.

— Come sarebbe a dire? — chiesi alla porta del bagno, passandole davanti. Entrai in camera da letto e slacciai la cravatta.

— Mi ucciderai.

— Be’, allora esci e facciamola finita. Ti lascio scegliere il metodo che preferisci. — Sbottonando la camicia, puntai gli occhi sulla porta del bagno, all’altro lato del corridoio. Si stava aprendo lentamente verso l’interno, con Jan nascosta dietro. Si spalancò quasi del tutto, e di colpo lei apparve in corridoio. Per metà sorrideva, per metà aveva dipinta in faccia una smorfia implorante. Restai di sasso. Il suo vestito nuovo era folle: una giostra di colori da dare il capogiro, come se qualcuno avesse spruzzato manciate di vernice sulla stoffa; ed era più corto di parecchi centimetri di qualunque cosa Jan avesse mai portato. Guardando meglio, mi resi conto che era un vestito preparato con molta maestria; le macchie di colore erano sistemate in modo armonico e ben proporzionato. Però era un pugno nell’occhio, e dissi: — Ma che diavolo? — Non volevo Jan pensasse che io disapprovavo il vestito che, dopo tutto, doveva portare al party di quella sera, così aggiunsi subito: — È splendido. — E lo era sul serio, mi resi conto. — Credimi, giuro — dissi, e lei sorrise alla sincerità della mia voce. — Mi piace un sacco. Gambe come le tue devono essere messe in mostra. — Per un’incredibile frazione di secondo, mi trovai a paragonare le gambe di Jan con quelle di Marion Marsh, e scacciai quel pensiero idiota. — Sei meravigliosa. Forse dovrò passare la serata a salvarti dalle aggressioni sessuali. Fra parentesi, se avessimo tempo…

— Non lo abbiamo.

— Peccato. Che fine ha fatto il vestitino nero?

— Non so — rispose lei, fingendo un gemito di dolore, ed entrò in camera da letto e si mise a studiare l’abito. — Volevo comperare una cosa tranquilla, poi ho visto questo, l’ho provato così per ridere, e… — Girò la testa, sorrise, scrollò le spalle. — Non so cosa mi abbia preso, ma l’ho comperato. Ti piace sul serio? No, non ti piace per niente.

— Sì, sul serio. — Mi stavo mettendo una camicia nuova. — Però tutte le altre donne saranno invisibili. Ti linceranno. Hai dato da mangiare ad Al?

— Sì. Ha insistito.

Nel tragitto verso il ponte, con la capote abbassata, raccontai a Jan quello che era successo la sera prima, con molta calma ma senza trascurare il minimo dettaglio. Volevo farmi capire bene. Lei ascoltò, poi ne parlammo. Jan aveva diverse domande, e io risposi a tutte. E lei disse che le sarebbe piaciuto essere stata con me. Capii che mi credeva; cioè sapeva che non stavo mentendo, che ero convinto di averle raccontato la verità. Ma che fosse successo davvero, o fosse stata solo un’illusione… Chi può dire che certe cose siano reali, se non le ha vissute?