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— Non so, Nick. Non sono un’esperta. Ho solo letto un po’ sull’argomento. Forse è degli anni Venti. Direi i Ven…

Jan si interruppe perché io, continuando ad abbassare con molta lentezza la carta umida, avevo improvvisamente messo a nudo tre piccoli archi distanti diversi centimetri l’uno dall’altro. Ognuno era alto due o tre centimetri, e di un rosso molto più brillante di tutto il resto del disegno. Tirai giù la tappezzeria fino al fondo della zona umida. La carta si strappò nelle mie mani, e io la buttai a terra, poi passai il pollice sulla sommità degli archi rossi. Il rosso si spalmò sul muro. Io guardai il mio pollice, poi Jan. — Rossetto.

— Be’, togline ancora un po’. Vediamo cos’è.

Direttamente sotto lo strato che avevo appena esposto, inumidii un’altra striscia alta una trentina di centimetri, l’altezza della scatola. Lì la carta a rampicanti era ancora coperta dallo strato precedente, ma io mi diedi da fare sino a inzuppare di vapore entrambi gli strati. Cominciai a toglierli, lavorando di raschietto fra parete e carta umida, e riuscii a sbucciarli tutti e due. — Due strati in un colpo. Gli dèi dormono. — Jan non rispose. Immobile, restò a scrutare ciò che stava gradualmente apparendo: una lettera M alta trenta centimetri, scritta con mano aggraziata a rossetto sulla carta a rose. — M per mostro? Malumore? Merde?

— Nick, vai avanti!

Sporgendomi dalla scala sulla destra, reggendo con entrambe le mani il peso del vaporizzatore, inumidii un doppio strato di carta a fianco della lettera M, spingendomi sin dove riuscii ad arrivare. Di nuovo, con l’aiuto del raschietto, riuscii a togliere entrambi gli strati, e la M rossa era l’iniziale di un Marion lungo un metro, scritto con un rossetto brillante sotto l’alto, vecchio soffitto.

Adesso nessuno dei due parlava più. Scesi dalla scala e ci guardammo, sorridendo eccitati. Aiutato da Jan, spostai la scala sul pavimento in legno, verso destra, e risalii. E dopo che ebbi tolto un altro po’ di centimetri di carta da parati, Jan e io leggemmo Marion Marsh, un nome e cognome lunghi un metro e ottanta e alti trenta centimetri, un po’ sbilenchi. Appena sotto la h di Marsh la cappa del caminetto sporgeva dalla parete. La carta si fermava all’inizio dei mattoni. Io scesi per spostare la scala a sinistra. — È un testamento! Scritto su una parete! E noi siamo gli eredi. Le prime persone che lo abbiano scoperto. Ha lasciato un milione…

— Nick, stai zitto e spicciati. O morirò.

Lavorando in fretta, togliendo la carta a strisce alte un metro e larghe trenta centimetri, feci apparire una seconda riga di testo centrata sotto la prima: ha vissuto qui, diceva. La riga sotto era quasi al centro della parete, a portata di mano di Jan, e mentre io passavo in su e in giù il vaporizzatore lei lavorava di raschietto, al colmo dell’eccitazione. 14, c’era scritto, seguito da giugno, e mentre il vaporizzatore grattava contro i mattoni sporgenti del camino, Jan toglieva la carta mettendo a nudo un 1, poi un 9, poi l’intera data, 1926. La riga sotto, con le mani di Jan che seguivano la scatola tanto da vicino che il vapore si raccolse sulle sue dita, diceva Leggete. E l’ultima riga, appena sopra il battiscopa (ci inginocchiammo fianco a fianco, con le dita che volavano nell’ansia del lavoro) diceva e piangete!

Accoccolati sui talloni, guardammo su. Da soffitto a pavimento, l’immensa scritta rossa copriva metà di una parete alta quasi tre metri e trenta, con un’estensione in orizzontale di almeno tre metri e sessanta. Jan lesse ad alta voce le due frasi: — Marion Marsh ha vissuto qui, 14 giugno 1926. Leggete e piangete! — Mi strinse il braccio. — Io piangerò se non scopriremo chi era! Nick, devo sapere. Devo assolutamente sapere.

— Già. — Annuii, e mi alzai, continuando a fissare l’enorme scritta. — Anch’io darei qualcosa per sapere, certo. Forse papà sa qualcosa. Glielo chiederemo stasera. Ma guarda. Ci devono essere voluti un paio di rossetti.

— Come minimo. — Jan si tirò su. — È una grafia molto elegante. Dà la sensazione di una persona interessante.

— Scommetto che lo era, sì. Be’, cosa facciamo prima di togliere la carta? Una foto, magari? Ho il rullino nella macchina fotografica.

— Oh, no. Lasciamola! Per la festa di inaugurazione della casa, per lo meno. Sarà un meraviglioso argomento di conversazione.

— Argomento di conversazione. — Cominciai a trascinare la scala sull’altro lato del caminetto. — A volte mi chiedo come sia davvero la conversazione quando la gente ha a disposizione argomenti concreti. “Ehi, quel secchiello per il ghiaccio è sul serio il teschio di tua suocera?” “Sì, l’ho fatto con le mie mani. Appena prima che lei morisse.” “Be’, mi venisse un colpo.” Fine della conversazione. “Non dirmi che quella riproduzione a grandezza naturale del Gabinetto di Guerra di Lincoln è tutta fatta di piume!” “Sicuro come l’inferno. Ci sono voluti tre picchi muratori solo per le sopracciglia di Stanton.” “Ma non mi dire!” Fine della conversazione. E di questa cosa si parlerà anche meno, ragazza. Cosa c’è da dire? È molto probabile che nel mondo intero nessuno sappia più chi fosse Marion Marsh. Quella scritta è probabilmente tutto ciò che resta di lei. E non riusciremo mai a scoprire qualcosa di più.

Ma lo scoprimmo. Per il resto della giornata, a parte un pranzo di quindici minuti in cucina a base di panini (Al, da quell’anima dolce che è, fece gentilmente fuori le mie briciole), continuammo a sbucciare carta, nell’attesa di veder apparire altre scritte. Non ne apparvero, e alle quattro e mezzo del pomeriggio l’intera stanza era riportata allo strato della carta a rose su tutte e quattro le pareti e sulla sporgenza del bovindo. Di nuovo, ci mettemmo a guardare la parete a sinistra del caminetto: Marion Marsh ha vissuto qui, 14 giugno 1926. Leggete e piangete! leggemmo un’altra volta. Poi mi cambiai d’abito per il viaggio all’aeroporto.

Erano i primi di marzo, ma era stata una giornata assolata, dopo una settimana di pioggia quasi ininterrotta. Sopra la camicia sportiva indossavo solo un maglioncino leggero, senza maniche. L’auto era parcheggiata a lato del marciapiede di fronte alla casa, col freno a mano tirato; eravamo su una collina. Quell’automobile è la cosa migliore che io possegga: una spider Packard vecchia di quarantasei anni che ho comperato prima di sposarmi, rimessa in sesto solo a metà. Il lavoro l’ho finito io. Carrozzeria grigia e ruote con cerchioni blu mare… Andava che era una meraviglia, e la usavamo sempre; era la nostra unica automobile. Quel giorno la capote di stoffa nera era abbassata; la vernice era chiazzata di sporcizia dopo la pioggia. Salii sul predellino, scavalcai la portiera, più alta del tettuccio di certe cosiddette automobili del giorno d’oggi, e mi lasciai cadere sul sedile in pelle nera. Poi guardai le nostre finestre.

Jan era al bovindo. Alzò un braccio per salutare, un po’ fiaccamente, a spalle mosce. Èra stanca, ovviamente, e doveva scopare in soggiorno, preparare la cena, e, il lavoro più grosso in assoluto, vestirsi per la serata. Jan è una ragazza timida; si trova a suo agio solo con amici di vecchia data, fidati. E anche se aveva già conosciuto mio padre, che le era piaciuto, non lo vedeva da quasi quattro anni. I suoi nervi si calmano un po’ quando è convinta di avere il suo migliore aspetto, quindi sapevo che scegliere cosa mettersi non sarebbe stata una cosa semplice o veloce.