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Lui annuì. Aveva gli occhi lucidi. — Tutti. Una copia completa e assolutamente perfetta fatta dai loro tre migliori tecnici. Hanno lavorato tutta notte, fino all’alba del giorno in cui lo studio ha fatto distruggere i negativi!

Rimasi impalato. Non sapevo cosa fare. Vedere tutti e quarantadue i rulli di Greed avrebbe richiesto dieci ore. — È questo? — stava chiedendo Ted. — È questo che volete vedere? Tutto? Una parte? Vi proietterò tutto quello che volete! — Era fuori di sé per la gioia.

Gli dissi: — Ted. Un rullo è stato colorato…

— Ce l’ho, ce l’ho! — Aprì un cassetto, lasciò correre gli occhi sui contenitori metallici, poi ne afferrò uno. — È questo! All’inizio del rullo. Lo vuole vedere? Lo metto in macchina! — Tornò nel cinematografo in miniatura, mise sul tavolo il portabobine e alzò il coperchio.

Io gli battei sul braccio. Adesso sapevo cosa volevo. — Non c’è bisogno di proiettarlo, Ted. Me lo lasci solo toccare.

Lui aveva già srotolato i primi due metri di linguetta iniziale e un metro e mezzo di rullo. Si girò a guardarmi, poi annuì e sorrise. — Capisco. Sì, certo. — Improvvisamente ansioso, chiese: — Lei sa maneggiare una pellicola?

— Mi creda, sì. La tengo in mano solo sui bordi. Non ho mai lasciato un’impronta su un solo fotogramma in vita mia.

Mi passò la linguetta iniziale. Io la alzai in aria, poi presi fra pollice e indice la pellicola, esercitando il minimo di pressione possibile. — La passi alla moviola, se vuole — disse Ted, ma io scossi la testa. Avevo sollevato la pellicola verso le luci del soffitto, ed era più che sufficiente. La famosa scena: Zasu Pitts, una Zasu Pitts giovanissima e deliziosa, nuda su un letto sul quale erano sparse monete d’oro. Procedendo di fotogramma in fotogramma, riuscii a vedere che lei si rotolava letteralmente nell’oro, premendo il corpo contro le monete. L’epitome dell’avidità. E quella, quella era la scena che Von Stroheim aveva ordinato di colorare a mano: sulla pellicola che io tenevo alzata alla luce, ogni monetina aveva ricevuto il colore dell’oro dalla punta di un pennello. Mi tremarono le mani, al pensiero di ciò che le mie dita stringevano.

Alla fine rimisi giù la pellicola e cominciai a risistemarla nel suo contenitore, ma Ted stava tremando d’eccitazione. — Farò io! Lasci stare! — Immagino che in vita sua non avesse mai lasciato un solo metro di pellicola fuori del portabobine, ma adesso era troppo eccitato per perdere tempo. — Venga qui. Trovi quello che vuole vedere. Lo trovi!

Non ci riuscivo. E nemmeno Marion. “Film perduti” era un’espressione priva di significato per lei; li aveva visti quasi tutti quando erano nuovi. Le sue esclamazioni erano riservate ai film che non aveva mai visto: un Charlie Chaplin, un Dolores Costello, roba che si può comperare dalla Blackhawk. Una volta la sentii dire a Ted: — Questo l’ho visto girare!

Io trovai Il patriota, un Ernst Lubitsch perduto, e lo portai al tavolo. Srotolai la pellicola quel tanto da avere il piacere di leggere i titoli di testa. Ma non era quello il film, il film, e Ted quasi letteralmente mi trascinò alla cella frigorifera perché trovassi la pellicola da proiettare.

Guardai nell’incredibile collezione di tutti i lungometraggi di D. W. Griffith, cercando di decidermi. Finii per scegliere La cosa più grande della vita perché Lillian Gish aveva sempre sostenuto che era il massimo capolavoro del maestro. — Credo che mi piacerebbe vedere un po’ di questo — dissi, passando la prima bobina a Ted. Lui annuì e si avviò al tavolo. Ma quando aprì il contenitore, io dissi all’improvviso: — No, aspetti! Non è la scelta migliore — e tornai di corsa nella cella frigorifera.

Mettete un bambino affamato in un negozio di dolciumi, ditegli che può scegliere quello che vuole, però una sola cosa e nient’altro… Be’, era la mia situazione. Non riuscivo a decidere perché, sempre, poteva esserci qualcosa di meglio che non avevo visto.

Trovai L’uomo dei miracoli, diretto nel 1919 dal misterioso George Loane Tucker, perduto da decenni. E Peg del mio cuore, con Laurette Taylor. Film interpretati da Marie Doro, Marguerite Clark ed Elsie Ferguson, attrici delle quali sono andati persi tutti i film.

E poi lo trovai. Passando davanti al secondo cassetto con la scritta ERNST LUBITSCH, intravidi un titolo con la coda dell’occhio, e fu da lì che presi il film che sapevo di dover vedere, la versione muta di Il grande Gatsby perduta da tanto tempo. Per lo meno, pensai che di quello si trattasse, e portai la prima bobina al tavolo per controllare i titoli di testa. Sul tavolo erano ammucchiate le pellicole delle quali avevamo aperto i contenitori, e la cosa mi turbava; ero certo che non fosse mai accaduto a quella collezione. Ma se anche il tavolo dava l’impressione di una grande confusione, con metri di pellicola che uscivano dai portabobine aperti, in realtà non era così. Nessun film si aggrovigliava con gli altri; tutti occupavano un loro spazio ben definito. Dovevo fare spazio per Il grande Gatsby, e spostai le altre pellicole con estrema cura, scavando un angolino. Poi cominciai a srotolare la pellicola, trovai i titoli di testa, e li alzai alla luce.

E su ognuno dei fotogrammi che stringevo nelle due mani, a minuscole lettere bianche su fondo nero, c’era l’incredibile cast: Rodolfo Valentino nella parte di Gatsby… Gloria Swanson in quella di Daisy Buchanan… Greta Garbo nel ruolo di Jordan Baker… John Gilbert in quello di Carraway… Mae West nel ruolo di Myrtle, la sua unica interpretazione muta, ne ero quasi certo… George O’Brien nella parte di Tom Buchanan… Harry Langdon nel suo unico ruolo serio, del quale fino a quel momento ero all’oscuro, quello del marito di Myrtle…

Ted, al mio fianco, scrutava la pellicola. Gli chiesi: — Non è il film con la sequenza del party nella villa di Gatsby?

— Sì, con Gilda Gray, Chaplin, e Francis Scott Fitzgerald stesso tra gli ospiti.

Abbassai la pellicola e fissai per un attimo lo schermo vuoto. Quell’incredibile film non solo era perduto da decenni, ma non era mai stato proiettato. A quanto si diceva, lo aveva fatto seppellire Gloria Swanson perché Lubitsch aveva concesso troppo spazio alla Garbo e alla West. Mi girai verso Ted. — Questo — gli dissi. — È questo che voglio vedere. — E dall’interno della cella frigorifera Marion emise un mezzo urlo.

Era davanti a un cassetto chiuso, con l’indice puntato sull’etichetta. Quando le arrivammo a fianco, lesse ad alta voce: — Le figlie del jazz… Oh, accidenti, Ted, perché lo hai tenuto? Voglio vederlo e non voglio vederlo! — Si voltò verso me. — È questo, Nickie. Mi hanno sostituita con la Crawford… Io sarei stata la rivelazione di questo film, non lei, se solo… — Scosse la testa. — No, porca miseria! Non lo voglio vedere!

Ma Ted aveva aperto il cassetto. Dentro c’erano due soli portabobine. — Marion… lei non c’è.

— Sì, non ha… Cosa vuoi dire?

— Ho salvato le riprese girate con te. — Ted sollevò di scatto il mento e guardò Marion. I suoi occhi antichi erano perplessi. — Credevamo fossi morta! Sì… Ne eravamo convinti. E io ho fatto stampare i positivi delle tue scene prima che buttassero i negativi. Quando il film è finito, con la Crawford al tuo posto, ho tolto le sue scene dalla mia copia. E le ho sostituite con le tue.

Era fermo davanti al cassetto aperto, la mano immobile sul bordo di metallo. Dopo un istante, Marion mise la propria destra su quella di Ted. — Ted, perché?

Lui guardò da un’altra parte. — Lo sai perché, no?