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— Sì. Credo di sì.

— Perché ti amavo. Ti ho sempre amata.

Guardando, ascoltando, capii finalmente, sino in fondo, perché i vecchi, vecchi film fossero un tempo stati così popolari. Perché, con una popolazione che era solo la metà della nostra, negli anni Venti sessanta milioni di persone andassero al cinema tutte le settimane. Noi ridiamo dei loro film e delle storie che loro prendevano sul serio. Ma quelle persone erano in sintonia coi film, e i film con loro; la gente era fatta così, o per lo meno pensava di voler essere così. Ted e Marion si stavano comportando come personaggi dei loro film, e ciò che dicevano somigliava ai vecchi sottotitoli. Ted ritirò lentamente la mano da sotto quella di Marion; se io fossi stato alla macchina da presa, avrei fatto un primo piano delle mani. La destra grande, avvizzita, percorsa da vene di Ted carezzò dolcemente la destra di Marion. Poi Marion intrecciò l’una all’altra le palme, le divise. — Ma sapevo che era impossibile — disse Ted. — Io ero più vecchio. Tanto più vecchio. — Sorrise. — E poi ero un mostriciattolo così buffo!

— No, non è vero. — Lei alzò con estrema lentezza una mano e sfiorò la mascella di Ted nella pantomima di un pugno. — Brutto testone…

— Andiamo! — Ted raccolse i due portabobine. — È questo che vogliamo vedere! È solo il primo terzo, solo la tua parte di film. Il tuo film, Marion! — Dissolvenza.

Era quello che volevamo vedere. Lo voleva Marion, e nonostante tutto ciò che quell’incredibile cella conteneva, lo volevo anch’io. Mentre il vecchio riportava in vita l’imponente proiettore, io spensi la luce della cella frigorifera. Marion mi fece strada sino alla prima fila, dove sedemmo su un divanetto imbottito per due.

Marion si mise a fissare lo schermo, ansiosa come un bambino. Girato a metà sul divano, guardai Ted inserire la pellicola nel proiettore. Lavorava sorprendentemente in fretta. Fece passare la linguetta iniziale nella sua finestrella, la agganciò alla ruota dentata, sistemò l’estremità sulla grande bobina di avvolgimento. Chiuse lo sportellino di metallo, ne aprì un altro sul retro del proiettore, posizionò gli elettrodi di carbone, chiuse lo sportello, accese la lampada ad arco, e fece scorrere una parte della linguetta. Le luci nel piccolo cinematografo erano ancora accese. Poi Ted aprì uno sportello, guardò la pellicola all’interno del proiettore, lasciò scorrere un altro po’ di linguetta, chiuse lo sportello, spense le luci in sala, e corse a lato di poltrone e divani.

Non capii il motivo di tanta fretta finché sullo schermo non smise di scorrere il bianco della linguetta iniziale e, sovrimpresso al disegno stilizzato di un sassofono, apparve il titolo: JESSE L. LASKY PRESENTA “LE FIGLIE DEL JAZZ”, UNA PRODUZIONE HOWARD BERMAN, DAL ROMANZO DI WALTER BRADEN. E in quel preciso momento iniziarono le prime note di accompagnamento di Ted; era arrivato in tempo all’organo.

I titoli di testa, a lettere bianche su fondo nero, passarono veloci, e molto più brevi di quelli del giorno d’oggi. Io però non li lessi, contrariamente alle mie abitudini, e credo che neanche Marion li abbia letti. Perché sulla destra del nome dell’ultimo personaggio, ADELE, al posto del JOAN CRAWFORD che avrebbe dovuto esserci apparve qualcosa d’altro: un rettangolo bianco, lampeggiante, e io capii cos’era successo. Su ogni singolo fotogramma dei titoli, Ted aveva meticolosamente grattato via un rettangolino di emulsione, cancellando il nome della Crawford. Al suo posto, a lettere vibranti, tremolanti, leggemmo il nome che Ted aveva scritto a penna: MARION MARSH.

Il film iniziò, continuò, ed era insignificante; né Ted né chiunque altro lo avrebbero mai conservato per il suo valore intrinseco. Ricordai di averne già sentito parlare, da un collezionista di film che lo aveva visto. Era un fan della Crawford, collezionava tutti i suoi film, e aveva visto Le figlie del jazz solo perché era la prima apparizione dell’attrice. Diversamente, il film sarebbe scomparso. La Crawford era brava, mi aveva detto. E infatti era stata notata e aveva cominciato la propria carriera.

Era, grosso modo, una commedia. La star era Alicia Conway, che ha girato qualche film negli anni Venti. Lì interpretava una ballerina decisa a sposare un milionario, che però si innamora perdutamente del giovane e bel cameriere del milionario, e lo sposa per puro amore. Dopo parecchie fesserie, si scopre che il giovanotto è il milionario e che ha finto di essere un cameriere perché stanco di donne che gli danno la caccia per i suoi soldi.

Guardammo per un po’. L’organo era un sottofondo discreto, capace di seguire benissimo le diverse atmosfere delle scene. A un certo punto mi girai a guardare, e Ted ondeggiava dolcemente sullo sgabello, con le dita che volavano sulla tastiera. Era felice.

Mi arrivò una gomitata e mi voltai. Sullo schermo, una piscina rettangolare, di vecchia foggia; una scena in esterni filmata con troppo sole. E sì, nel gruppo ai bordi della piscina (le ragazze in costumi da bagno scuri, col gonnellino, e cuffie di gomma; gli uomini in calzoncini scuri e maglietta bianca) c’era la ragazza che avevo visto sul mio televisore e dal vero, trasparente ma vivida, reale, quella stessa sera. Le immagini erano in bianco e nero, ma alla luce del giorno il colore biondo dei suoi capelli era evidente. A una a una, le ragazze, ballerine ospiti del milionario, percorsero il trampolino, si misero in posa all’estremità, guardarono gli spettatori, e si tuffarono.

Non riuscii a capire come accadesse. Le altre erano soltanto attrici che recitavano la loro parte, agitavano fianchi e spalle camminando sul trampolino, sbattevano le ciglia prima di tuffarsi. Ma di nuovo, come sempre, Marion Marsh mi diede un brivido. Percorse il trampolino senza dimenarsi, in maniera molto semplice e diretta, ma la sua figura, il suo corpo, i movimenti, e lei stessa, lei in quanto persona, si imposero alla mia attenzione. E successe qualcosa anche agli uomini raccolti attorno alla piscina, qualcosa di cui, ne sono convinto, non si resero nemmeno conto. Al passaggio di ognuna delle quattro ragazze che avevano preceduto Marion, gli uomini avevano sorriso, mosso le sopracciglia in su e in giù, mormorato commenti. Con Marion, invece, rimasero immobili a guardare, senza ricordarsi di parlare, e così lei diventò l’unica figura in movimento sullo schermo. Quando arrivò in fondo al trampolino, a piedi uniti, guardandosi attorno con la tipica arroganza di Marion Marsh che avevo imparato a conoscere, persino le ragazze che stavano nuotando in acqua alzarono gli occhi a guardarla. Poi lei si tuffò, trafisse l’acqua col corpo, uscì di scena. La ragazza successiva si fece avanti sul trampolino, e il film perse di nuovo ogni traccia di vita.

— Ma cosa hai fatto? — sussurrai. — Cosa pensavi? Sentivi la parte?

— La parte? Ma no. L’unica cosa che pensassi era che volevo farmi guardare. Pensavo alla macchina da presa.

Sullo schermo, la via di una città; e a fianco di un enorme tram, intravidi una vecchia automobile elettrica dal tettuccio molto alto, il tipo d’auto che andava a batterie e che al posto del volante aveva una barra di timone.

Un po’ più tardi, un inseguimento: una macchina sportiva correva su una stretta strada asfaltata, a lato dei binari ferroviari, nel tentativo di raggiungere un treno. Sulla piattaforma panoramica, Alicia Conway, a braccia aperte, aspettava che l’uomo sul predellino dell’automobile arrivasse tanto vicino da poterle lanciare la busta che conteneva la sua licenza di matrimonio. L’auto sbandava da un lato all’altro della strada.

Stacco, primo piano sull’auto. Vediamo l’autista e tre o quattro persone sui sedili anteriori e posteriori, uomini e donne. Sono eccitati. L’autista è chino sul volante, sterza di continuo; ha gli occhi sgranati per dare l’impressione dell’alta velocità. Le ragazze strillano, fanno smorfie, ondeggiano a destra e a sinistra; e a me diedero l’impressione di non credere in ciò che facevano, nel film, nella possibilità che il pubblico potesse trovarlo credibile. Con l’eccezione di Marion.