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Dapprima, non si notava nemmeno. Ma dopo la prima decina di secondi di quell’inseguimento esagitato, individuavi sul sedile posteriore una ragazza quasi nascosta dalle altre. Ti accorgevi della sua presenza, mi resi conto, perché non faceva niente. Se ne stava soltanto seduta, col mento leggermente sollevato, gli occhi quasi socchiusi, e un sorriso remoto sulle labbra; però sentivi l’aria correrle sul volto, percepivi la sua pacata eccitazione. Appena prima che la scena terminasse, con lo sguardo di ogni possibile spettatore incollato addosso, Marion alzava all’improvviso le braccia, le protendeva in avanti, si sollevava a metà dal sedile, e potevi leggere le parole sulle sue labbra esattamente come se le avessi udite: Più veloce…

La scena era sua, rubata a tutti gli altri che nemmeno si accorgevano di lei. Quando mi girai a guardare Marion nel buio, sorrideva. Con gli occhi ancora sullo schermo, mormorò: — È stata una mia idea, quell’ultimo gesto. Non ho detto niente prima per paura che me lo proibissero. L’ho fatto e basta. Scommetto che la Crawford me l’ha rubato.

La bobina finì. Ted tornò indietro di corsa, accese le luci, tolse la bobina, la mise giù, sistemò la seconda sul proiettore. Sempre lavorando molto in fretta, controllò le due bobine, chiuse lo sportello di metallo, avviò il proiettore, spense le luci. Mentre sullo schermo passava la linguetta iniziale, lui corse all’organo, e di nuovo le prime note e le prime immagini coincisero alla perfezione.

— La mia ultima scena — mormorò Marion. — Credo sia all’inizio.

Arrivò dopo un minuto o due. Un vecchio amato da tutti, il produttore di un musical di Hollywood, era appena crollato a terra fra le quinte. Adesso le ballerine di fila, una dozzina di ragazze, dovevano andare avanti, sorridere al pubblico, schioccare le dita a tempo di jazz, anche se i loro cuori sanguinavano.

Undici ragazze lo fecero snudando i denti in sorrisi rigidi, come se la macchina da presa potesse filmare un sorriso solo se venivano messi in mostra tutti i denti; intanto sbattevano in continuazione le palpebre, per dimostrare che stavano trattenendo le lacrime. Marion inventò un sorriso nervoso, a labbra socchiuse; il labbro inferiore accennava solo un tremito di tanto in tanto; e i suoi occhi erano puntati oltre il pubblico, che non vedevano più. La guardavi, e ti veniva da chiederti cosa stesse pensando. Ma sapevi cosa pensasse, te lo aveva detto la trama del film, e quindi credevi di vedere le sue vere sensazioni. Le altre mimavano il dolore, ma Marion te lo faceva vivere, te lo faceva percepire. Dovevano essere in funzione due macchine da presa, una riservata ai primi piani. Perché i visi dell’una o dell’altra ragazza cominciarono ad apparire in primo piano. Ma la macchina da presa tornò sempre più spesso sul volto di Marion. Al mio fianco, lei mormorava fra sé, eccitata: — Pensavo che lo avrebbero fatto, ma non ne ero sicura! Stanno usando il mio primo piano. Il mio.

Un altro stacco, un altro primo piano di Marion, con lo stesso sorriso, e le spalle che ondeggiavano, le dita che schioccavano; ma adesso sul suo viso colavano lacrime. La macchina indietreggiò tanto da mostrare la sua intera figura che ballava, sorridendo per il pubblico, piangendo per il dolore, e io mi scoprii eccitatissimo. Avrei voluto urlare o strillare o fare qualcosa. Sapevo che Joan Crawford non era stata migliore di ciò che stavo vedendo, che non avrebbe potuto esserlo.

La sala si illuminò, lo schermo divenne quasi bianco, le immagini indistinguibili. Mi sentii irritato come succede quando qualcuno apre una porta in un cinematografo nel mezzo della proiezione, e mi girai a guardare chi fosse entrato. Ma non c’erano porte aperte, e già nel breve istante in cui voltai la testa la luce era scomparsa. Solo uno sciame di falene di luce bianco-gialla, stranamente, volteggiava e correva a zigzag sopra la superficie del grande tavolo sul fondo. Guizzavano velocissime, sparando scintille come micce.

Ed erano micce, mi resi conto: una decina di pellicole che bruciavano a velocità folle, mentre il fuoco correva verso i portabobine aperti. Già mentre mi alzavo dal divanetto capii cosa fosse successo. Lo capii perché avevo intravisto all’interno del proiettore la luce brillantissima della lampada ad arco, che invece non avrei dovuto vedere. Lo sportello di metallo che Ted aveva chiuso in fretta e furia per correre all’organo si era riaperto, almeno un po’. Ed era bastato che una scintilla degli elettrodi al carbone, incandescenti, cadesse sulla pellicola sul tavolo. Un foro dai contorni frastagliati si era aperto in uno dei fotogrammi (di Greed? Di Il grande Gatsby? Di un Griffith perduto?). Il lampo di una fiamma aveva invaso per un attimo lo schermo con la sua luce, e adesso decine di micce si erano accese.

Mentre correvo verso la parete laterale del piccolo cinematografo, vidi il primo portabobine, e un istante dopo tutti quanti, esplodere in fiamme gialle. Nubi di fumo nero, denso, si gonfiarono e si espansero come un’ondata di genietti maligni; si fusero tra loro e vennero risucchiate, come un tendone nero, verso le bocche d’aerazione sotto il soffitto, sul fondo della sala. Prima ancora che io avessi raggiunto la parete, le tende direttamente di fronte alle pellicole in fiamme, a lato del tavolo, presero fuoco crepitando.

A metà della parete mi arrivò alle narici un odore intensissimo, nauseabondo, e mi fermai. La pellicola che brucia produce un gas altamente velenoso, capace di uccidere con estrema rapidità. Sapevo cosa sarebbe successo. Le vecchie pellicole sono come dinamite, chimicamente affini alla nitroglicerina, credo: ci sarebbe stata un’esplosione, e nessuno era in grado di superare la barriera di gas per spegnere le fiamme.

Immobile a fianco del muro, fissai il fondo della stanza, i contenitori aperti trasformati in pentole nelle quali bolliva un velenoso fuoco giallo, il fumo nero che si alzava come una parete dal tavolo alle bocche di aerazione. Sentivo già la pressione del calore corrermi incontro. Le vecchie pellicole al nitrato si incendiano a solo trecento gradi Fahrenheit. Di lì a pochi istanti (non solo le tende, ma adesso anche i vecchi pannelli di legno verniciato avevano preso a crepitare) i cassetti che avevamo lasciati aperti appena oltre la soglia della cella frigorifera avrebbero raggiunto la temperatura critica. Si sarebbero sviluppate fiamme; i coperchi dei portabobine sarebbero volati via. E poi sarebbero esplosi i cassetti chiusi.

Urlai: — Ted! — Il vecchio sedeva davanti all’organo. Paralizzato, pietrificato, fissava il fuoco. Mentre tornavo di corsa a prendere Marion, strillai: — Fuori, Ted, fuori! Si metta un fazzoletto sulla faccia ed esca! — Corsi verso Marion. Incredibilmente, la vidi girare la testa, smettere di guardare l’incendio e riportare gli occhi sullo schermo. Il proiettore, sul lato opposto del tavolo rispetto alla pellicola e alle tende in fiamme, funzionava ancora. Sullo schermo continuava a vivere il film di Marion.

La afferrai per un polso, ma lei si liberò subito con un violento strattone. Scosse la testa senza nemmeno staccare gli occhi dallo schermo. — No! Vai tu, Nickie! Io devo vedere il mio film!

Ritentai, ma lei si aggrappò al grosso bracciolo imbottito, infilò i piedi sotto il divano, e oppose una resistenza caparbia… È il film continuò a scorrere, sedici fotogrammi al secondo, col fuoco alle nostre spalle che inondava di luce lo schermo. Però l’immagine era ancora chiara: Marion, nel suo corpo di mezzo secolo prima, schioccava le dita, sorrideva coraggiosamente mentre ballava, guardava diritta davanti a sé come fissasse il fuoco, e piangeva. E davanti allo schermo, a occhi avidamente sgranati, sedeva non Marion, ma il corpo di mia moglie; e io presi la sua nuca nella sinistra aperta, e con la destra mi preparai ad assestarle un pugno alla mascella con la forza giusta, per farle perdere conoscenza senza rompere ossa. Lei mi vide. Il suo sguardo si staccò per un attimo dallo schermo e guizzò al mio pugno. E un istante prima che io la colpissi, lei si afflosciò. Emise un lieve gemito e chiuse gli occhi.