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In parte correndo, in parte barcollando, trasportai il corpo svenuto di Jan in avanti. Mi preparai alla corsa attorno all’orlo del tavolo, oltre la parete di fumo velenoso, verso l’indistinta forma rossa del cartello dell’uscita, in fondo. Col braccio destro sotto le sue ginocchia inerti, il sinistro attorno al suo collo, spostai la mano sinistra sino a coprirle il viso, pronto a chiuderle bocca e narici negli istanti della corsa.

Ted mi fissava dall’altro lato della sala. Poi si girò sul sedile a guardare in direzione dello schermo, e automaticamente io lo imitai. Trasparente ma perfettamente distinta, Marion sedeva in prima fila; il raggio del proiettore metteva in risalto il biondo dei suoi capelli. Il viso era rivolto allo schermo sul quale lei stava ballando. Ted si voltò, abbassò entrambe le mani sulla tastiera, e dall’organo uscì un accordo potente. Continuò a suonare con vigore furibondo; e lo spettro che danzava sullo schermo, come lo spettro seduto sul divano, divennero sempre più bianchi ed eterei, nella metamorfosi che precedeva la sparizione definitiva.

Poi Marion si voltò a guardare Jan e me. Sorrise con ironia, con affetto. E sollevando una mano alla fronte, in un saluto scanzonato alla Joan Blondell, riportò lo sguardo sullo schermo.

Io mi misi a correre. Mi girai a guardare un’ultima volta Ted, che stava ancora suonando, e lui si voltò verso me. E io seppi di avere già visto ciò che vidi in quell’attimo. La mente umana funziona in maniera strana, nei momenti più strani; e anche mentre correvo nella cortina di fumo acido, con la mano stretta sul viso di Jan, mentre mi precipitavo oltre le porte, nell’aria pulita del lungo corridoio, continuai a cercare di ricordare dove avessi già visto quella faccia.

Jan fu scossa da un brivido, mormorò qualcosa, e aprì gli occhi. La depositai a terra. Ci mettemmo a correre in corridoio, e mentre fuggivamo capii cosa avevo visto quando la testa a cupola di Ted, coi radi capelli, si era girata a mostrarmi gli occhi, rotondi e sgranati, e quelle enormi narici, due fori completamente neri nel bagliore crepitante dell’incendio. Era la scena, riprodotta quasi al millimetro, nella caverna sotto il teatro; la scena nella quale il Fantasma dell’Opera si gira dall’organo per puntare sulla stanza quel suo sguardo orribile e patetico.

Sul grande prato buio, assieme a una decina di domestici di Ted e alla folla che si stava raccogliendo (sempre più fitta, con gente che si riversava in continuazione dal cancello in ferro), restammo a guardare Graustark. In distanza si cominciavano a udire le sirene delle autopompe. Dentro, le luci si erano spente all’improvviso, e adesso la grande casa era una silhouette stagliata contro il cielo della sera. Solo tre finestre che non sapevo a cosa corrispondessero brillavano rosse. Poi il tetto (sopra la cella frigorifera e la sala di proiezione, dissero i domestici) esplose in un’enorme, ruggente lingua di fiamme, grandi scintille, oggetti neri scaraventati in alto. Il cielo diventò rosa.

Il fuoco era libero. Lo vedemmo cominciare a correre nel lungo corridoio con le camere da letto dove avevano dormito Vilma Banky… la Nazimova… Tom Mix… Constance Binney… Milton Sills… Lya de Putti! Poi, la prima delle grandi vetrate ad arco avvampò di luce per l’ultima volta, come mai in passato, illuminata dall’interno. Nella mano tesa di Renee Adoree, la rosa diventò incandescente. E nel furioso turbinio delle fiamme ruggenti, lei parve muoversi davvero, protendersi verso il soldato sul camion, appena al di là della sua portata. Poi la vetrata tremò, si spezzò, e centinaia di vividi frammenti di La grande parata piovvero sul terreno. Qualcuno avvampava di colori.

Il fuoco sbucò dal soffitto del corridoio. La luce si proiettò all’esterno sul prato, trasformando le persone davanti a noi in silhouette dai contorni rosati. Tenevo il braccio attorno alle spalle un poco tremanti di Jan; cominciavamo a sentire il calore. Sulla distante fortezza della vetrata successiva, il tricolore francese brillava di una luminosità impossibile. Tremò per un attimo, parve ondeggiare. Ronald Colman e la sua lacera colonna di uomini barcollarono, come stessero per buttarsi sulla sabbia del deserto; poi svanirono nel nulla. La parte centrale della finestra aveva raggiunto il punto di fusione.

Il fuoco corse ruggendo in corridoio. L’aereo di Buddy Rogers, come il distante apparecchio che aveva appena abbattuto, si incendiò, o così parve. Le fiamme gli lambirono le ali. Vicino alla punta di un’ala, un pannello di vetro crollò, e il fumo nero si riversò immediatamente all’esterno, come salendo dall’ala. Poi, sempre sorridente, con la destra sollevata a togliersi il casco, toccandosi la fronte in un ultimo saluto, Buddy scomparve dietro una vampata rossa di fiamma, nera di fumo.

Un istante dopo, non di più, il costume di Doug Fairbanks diventò di uno stupendo, brillantissimo verde smeraldo, e il suo indomito sorriso a denti candidi fu visibile, ne sono certo, sopra mezza Hollywood in quell’ultimo attimo, prima che Robin Hood esplodesse e svanisse per sempre. Poi Jan e io ci voltammo, e nel tremolio della luce rosa, con le lunghe ombre dei grandi alberi di Graustark che ondeggiavano davanti a noi, ci avviammo al cancello. Mentre uscivamo arrivò la prima autopompa, sollevando una nube di ghiaia e foglie morte.

L’esperienza ci cambia, ci dicono, o comunque dovrebbe cambiarci, e forse Marion Marsh cambiò noi due; può darsi. Di certo è stata un’esperienza che non dimenticheremo mai. E quella sera, molto, molto più tardi, nella nostra camera al Beverly Hills Hotel, uscendo dal bagno, io pensai per un attimo che Marion fosse tornata un’altra volta: mi sorrideva carica di promesse dal letto, e indossava il négligé più trasparente che io abbia mai regalato a Jan. Ma non era Marion; era Jan, che voleva farmi pensare, ne sono quasi certo, di essere Marion. In ogni caso, tentò (e ottenne buoni risultati) di essere un po’ più come lei, un po’ più scatenata e libera. Ma nessuno di noi cambia davvero molto. Restiamo noi stessi, e in buona parte quella era sempre Jan, il che mi andava benissimo. Dopo tutto, e lo sapevo, io non sono Rodolfo Guglielmi.

Un pizzico di pazzia ce lo concedemmo; non tornammo subito a casa. Trascorremmo un paio di giorni a Disneyland e visitammo il cimitero di Forest Lawn, però io non riuscii a trovare il mausoleo marmoreo di Felix il Gatto. Poi ripartimmo per casa, perché eravamo rimasti a corto di soldi e io dovevo finire il bagno nuovo.

Una decina di giorni dopo, da Hollywood arrivò un malloppo di documenti, e noi li compilammo e li restituimmo firmati coi nostri veri nomi, spiegando che Marsh e Guglielmi erano pseudonimi. E per un po’ di tempo, finché quei maledetti spot pubblicitari del ketchup Huntley continuarono a essere trasmessi, ricevemmo asségni per quelli che venivano definiti “pagamenti residui”. Io mi comperai Lo stretto sentiero, con William S. Hart; Nomadi del nord, con Betty Blythe; e Capitan Gennaio, con Baby Peggy. Al ebbe un nuovo cappottino scozzese di lana per l’inverno, e non gli piacque e fece resistenza; anche se, come gli feci notare io, aveva un graziosissimo taschino grande abbastanza per contenere un biscotto per cani a forma di osso. E Jan comperò un paio di mobili nuovi e fece ridecorare il soggiorno.

Con l’eccezione di una parete, ovviamente. Quella non è cambiata, e non cambierà mai finché noi resteremo in questa casa. Marion Marsh ha vissuto qui, dice ancora l’enorme scritta a rossetto. Leggete e piangete.