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L’auto sullo schermo rallentò, poi si fermò davanti alla scala in pietra di una grande casa di campagna. Mi protesi in avanti a scrutare, e riuscii a identificare l’ornamento sul radiatore: una Pierce Arrow. Apparve un sottotitolo: Una ricca villa di Long Island. Lo chauffeur aprì una portiera posteriore della berlina e aiutò a scendere un’anziana signora. La donna aveva gli occhialini col manico; indossava un vestito lungo e un cappello rotondo a tese larghe, leggermente curvo in alto. Dissi: — Sembra che abbia in testa una torta.

La scena cambiò: l’interno di una grande stanza (tappezzeria e lance incrociate alle pareti), con porte finestra spalancate che davano su una veranda in pietra, con un’imponente balaustra in pietra; dietro la veranda, un prato enorme si stendeva in distanza. Non riuscii a capire se fosse vero o fosse uno sfondo dipinto. L’anziana signora con gli occhialini col manico stava entrando nella stanza, e dalla veranda le andava incontro una giovane donna: Blanche Purvell, la star del film. In contrasto con l’abito della vecchia, il suo arrivava solo alle ginocchia ed era senza maniche. — Belle gambe — dissi, e sorrisi quando Jan mi lanciò un’occhiata.

Il ritmo della storia era veloce: Blanche Purvell era una ricca ereditiera, innamorata di un uomo povero che viveva nella città vicina, anche se la madre, la donna degli occhialini, non era d’accordo. Apparve il giovanotto. Consegnava generi di drogheria; portava un berretto bianco a punta curva, camicia bianca, cravatta, e un maglione. Con l’aiuto di una signora di mezza età in tenuta da cameriera, scaricò tutto da un cestino di vimini sul tavolo di una cucina molto strana, molto vecchiotta. Poi arrivò la ragazza. I due si scambiarono un sorriso d’amore mentre la cameriera non guardava, poi uscirono da una porta sul retro. Si incamminarono su una distesa d’erba, superarono un paio di campi da tennis dove gente giovane stava giocando. Mi chiesi dove fossero state girate quelle scene, e cosa ci fosse adesso al posto dell’erba: la rampa di una superstrada, probabilmente, oppure un centro commerciale con un parcheggio da cinque acri. La coppia proseguì verso un furgone, un Model T Ford nero con un tettuccio lungo e curvo che andava dal parabrezza alla sponda posteriore. Gli sportelletti laterali erano aperti. Era parcheggiato su una strada bianca.

Mentre attraversavano l’erba verso il furgone, la ragazza si guardò attorno, lanciò un’occhiata alla casa, poi lei e il ragazzo si tennero per mano per tutto il resto del percorso. — A lui interessano i soldi — disse Jan.

— Naturalmente. Porta quel berretto idiota perché è calvo come una palla da biliardo, e lei non lo sa.

— Che sorpresa, quando lui se lo toglierà in luna di miele.

— Bisogna vedere se lo toglierà.

Apparve una spider coi raggi delle ruote in legno, la capote abbassata. Frenò bruscamente; le ruote sembravano girare all’indietro. Una nube di polvere avvolse ragazzo e ragazza, e Jan mormorò: — Che splendore. — Un giovanotto in completo da tennis, con un golf di lana sulle spalle, saltò giù scavalcando la portiera chiusa dell’automobile. Aveva in mano un paio di racchette da tennis. Scrutò con aria di superiorità il furgone, poi con un cenno imperioso ordinò alla ragazza di seguirlo verso i campi da tennis. — Lo adoro! — disse Jan.

— Sei una snob. — Sullo schermo, la ragazza girò sui tacchi per mettersi alle calcagna del tipo in tenuta da tennis, poi si voltò a lanciare un’occhiata struggente al giovanotto rimasto davanti al furgone. Parlò, e mentre le sue labbra si muovevano, io dissi: — Ti amo, Ralph, ma Frank ha un odore migliore. — Sullo schermo, un sottotitolo disse: Preferirei restare con te!

Perdemmo interesse: la storia correva troppo veloce e troppo ovvia, e il mondo al quale faceva riferimento (se faceva riferimento a qualche mondo) era remoto al punto dell’incomprensibilità. Il film era la copia di una copia, probabilmente; i volti erano slavati, bianchissimi, e Jan mormorò: — Sono tutti occhi, labbra e sopracciglia, come nelle vecchie fotografie.

— Già. Sai una cosa? Questo film è stato girato grazie alla luce riflessa in un obiettivo. La luce proiettata dai volti di persone reali. Che un tempo esistevano davvero, e in quella certa scena facevano proprio quello che stiamo vedendo. Lo so, però non ci credo. Questo è stato sempre e solo un vecchio film, e al di fuori del film tutti loro non sono mai esistiti.

Le note del pianoforte non si interruppero mai. Neri, grigi e bianchi continuarono ad alternarsi sullo schermo, e noi restammo a guardare in preda all’apatia. Di tanto in tanto, con l’altro di guardia, uno di noi due si alzava per andare a prendere qualcosa da mangiare, qualcosa da bere, fare un salto in bagno, o un giro in casa. Stavamo seguendo il film da più di quaranta minuti, e io ero in cucina, seduto al tavolo, a leggere le pagine sportive (verdi) del Chronicle e mangiare patatine fritte. Il rumore del sacchetto e il profumo delle patatine avevano miracolosamente risvegliato Al dal suo coma. Adesso era seduto sul pavimento a guardarmi, come una goffa imitazione basset hound del terrier che stava di fronte al fonografo nei vecchi annunci pubblicitari, a testa piegata, orecchie ritte (o almeno, fino al massimo del ritto di cui era capace), e ogni tanto io gli lanciavo una patatina. Ho tentato di insegnargli ad afferrare le cose al volo, ma i suoi occhi non sono esattamente perfetti; e ogni patatina gli atterrava sul naso, rimbalzava sul pavimento, e lui doveva andarla a cercare. Poi la mandava giù in un sol boccone e ricominciava a guardarmi, in attesa di altri rifornimenti.

Al mi piace, come penso di aver già lasciato capire, e i suoi occhi mi affascinano. Sono così grandi e castani, così umani e innocenti. È come se un bambinetto di quattro anni, colmo di fiducia, vi guardasse negli occhi da un peloso muso canino marrone e bianco. Era ciò che Al stava facendo in quel momento, e io mi sporsi dal tavolo a guardarlo diritto negli occhi e fargli una domanda vecchia e familiare in quella situazione. — Senti, ma tu chi sei? Tu che stai lì dentro? Sul serio. Non mi freghi, sai, con quel folle costume da cane. — Sollevai una delle sue orecchie marroni incredibilmente lunghe. — Nessun cane ha orecchie ridicole come queste. È qui che hai commesso il tuo grande errore! — Di colpo, balzai in ginocchio al suo fianco, lo afferrai sotto le zampe anteriori, e lo coricai sulla schiena. Tenendolo fermo sul pavimento con una mano, mi misi a frugare nel pelo bianco del suo petto. — Dov’è la cerniera lampo? Adesso ti tolgo questo stupido costume da cane! Ti sbugiardo per l’impostore che sei! — Era un vecchio gioco, il tipo di spupazzamento che Al adora. Si mise a lottare con le zampe posteriori e con denti molto cauti. Dopo un minuto, lo lasciai rialzare, lo calmai con un po’ di grattate dietro le orecchie. — Okay, hai vinto un’altra volta. — Gli diedi una patatina. — Sei furbo, come no. Lo sappiamo. Però quella cerniera c’è, e un giorno o l’altro la troverò.

— Nick, ci siamo, credo! — strillò Jan. Versai a terra le ultime patatine per Al e corsi fuori dalla cucina.

La scena era un party nella grande stanza dell’inizio del film, adesso piena di gente. Al pianoforte a coda, con le spalle che sussultavano al ritmo rapido della musica, sedeva un giovanotto con un filo esilissimo di baffi e capelli neri, impomatati, pettinati all’indietro. Al suo fianco, sul sedile, una ragazza in gonna corta beveva frequenti e rapidi sorsi dal drink che teneva in mano. L’altra mano si muoveva nell’aria all’altezza delle spalle, apparentemente a tempo col pianoforte. Un’altra ragazza era coricata sul piano, col mento tenuto su dalla mano destra; nella sinistra aveva un bicchiere da cocktail. I tappeti erano stati arrotolati, e le coppie ballavano a ritmo frenetico. Su un’ampia scalinata curva era seduta gente che si baciava; diversi altri tizi, sdraiati su un divano, mimavano l’ebbrezza alcolica. Quasi tutti avevano in mano un bicchiere da cocktail, e bevevano spessissimo, rovesciando indietro la testa.