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Una cosa completamente irreale. Quegli individui e quel party non erano mai esistiti. Quelle antiche fotografie che piroettavano mute alla musica di un implacabile pianoforte erano assurde. L’obiettivo della macchina da presa si spostò lentamente ai margini della festa, e rivelò: una coppia ubriaca in maniera esagerata, seduta sotto un tavolo; un maggiordomo privo d’espressione che entrava con un vassoio di bicchieri pieni e una bottiglia che qualcuno gli rubò immediatamente; una partita di dadi sul pavimento, con maschi e femmine tutti in ginocchio; un gruppetto di uomini (compreso l’arrogante tennista, adesso in smoking) che accerchiavano una ragazza, quasi al punto di nasconderla.

Poi due degli uomini, come per caso, si spostarono, e apparve la ragazza, e noi sgranammo gli occhi: sapevamo, da quanto aveva raccontato mio padre, che era Marion Marsh. In un abitino corto, molto anni Venti, come tutte le altre donne; coi capelli alla maschietta come tutte, con una ciocca a forma di J su ogni guancia, e il viso bianco come tutti gli altri, Marion restò ad ascoltare uno degli uomini. Poi sorrise e gli rispose, e io, senza sapere perché, mi resi conto che aveva catturato la mia attenzione. In un modo assolutamente indefinibile, grazie alla semplice magia di una personalità rara, diversa, quella ragazza sembrava reale, a differenza degli altri. Era una figurina granulosa in un angolo dello schermo, però parlava sul serio. Mi sorpresi a protendermi in avanti sul divano, come se in quella maniera mi fosse possibile udirla; e avrei voluto udire. Alzò la mano, scosse l’indice, rimproverando scherzosamente uno degli uomini, poi sorrise, e Jan e io sorridemmo con lei. In finta supplica, uno degli uomini intrecciò le mani in preghiera, poi prese Marion per il gomito; cercò di allontanarla dagli altri; e quando lei scosse dolcemente la testa, e piegò le labbra in un sorriso di rifiuto, io la desiderai come donna. Per chissà quale motivo, che non ho capito allora e non capisco oggi, a differenza di tutte le altre figure di quella scena assurda, quella figura in grigio e bianco era viva.

Distolse gli occhi dagli uomini che aveva attorno, scrutò la stanza. E l’ombra di noia che apparve sul suo viso in quel momento, e che svanì non appena lei si girò di nuovo verso il gruppo, era genuina. Guardandola riprendere la conversazione, mi parve di capire i veri sentimenti della donna che interpretava; in seguito ricordai l’intera scena come se avessi udito la sua voce. E in quell’attimo mi sembrò addirittura credibile che le caricature attorno a lei, gli uomini che quasi saltavano nell’esagerata enfasi dell’attenzione per Marion, provassero davvero ciò che stavano recitando. La macchina da presa si mosse, l’immagine di Marion rimpicciolì, la scena svanì sullo sfondo, e io mi protesi in avanti per cogliere le ultime immagini di lei. E quando Marion scomparve del tutto dall’inquadratura, io restai sotto l’incantesimo della sua presenza, con la netta sensazione che lei stesse ancora sorridendo e parlando fuori campo.

Quell’impressione durò per un lungo momento, nell’interminabile musica del pianoforte, con i fotogrammi che continuavano a scorrere senza più avere il minimo significato per me. Poi uscii dalla trance e guardai Jan. — Ragazzi — mormorai. — Aveva la scintilla. L’aveva sul serio.

— Sì… Oh, potrei mettermi a piangere! Nick, sarebbe diventata una star! Il suo nome ci sarebbe stato noto come…

— Lo so. Come quelli di Norma Talmadge o Clara Bow. Non c’è il minimo dubbio.

— Be’, è un peccato! Pensa a come deve essersi sentito tuo padre guardando il film.

— Gli è passata da un bel pezzo, ne sono certo.

Restammo davanti al televisore per qualche altro minuto, poi Jan disse: — Non credo di poter resistere ancora mezz’ora, Nick. Sono quasi le dieci e mezzo, e sono stanca. Ma sono così contenta di averlo visto. — Si girò a guardare le parole di Marion sulla parete alle nostre spalle.

— Si vede ancora. Alla fine.

— Solo per un secondo, o così ha detto tuo padre, e io sono troppo stanca. Oggi ho fatto le pulizie di casa. Tu guarda pure, se vuoi. Io vado a letto e continuerò a pensare a lei finché non mi addormenterò.

— Okay. Prima “biscotta” fuori il vecchio, ti spiace? — Non ricordo come fosse iniziata la cosa, ma alla sera, anziché ricorrere ai metodi bruti e semplicemente ordinare ad Al di uscire, gli passavamo un biscotto sul naso. La sua lingua guizzava automaticamente fuori dalla bocca e dava una ripassata al naso. Lui mandava giù le briciole di biscotto, sgranava gli occhi, si alzava con scatto atletico, trotterellava in cucina e usciva dalla porticina tutta per lui che avevo installato alla base della porta. Quando era in cortile, gli davamo il biscotto e lo chiudevamo fuori. Veloce, semplice; niente discussioni e tutti contenti, almeno finché Al non aveva divorato il biscotto.

Jan mi diede un bacio sulla guancia, biscottò fuori Al, e io restai a guardare il film fino in fondo, per un’altra trentina di minuti, rovesciato sul divano, mezzo sveglio e mezzo addormentato. Negli ultimi istanti di Ragazze focose, una sposa, Blanche Purvell, lanciava il bouquet a un gruppo di damigelle d’onore ai piedi della scalinata, e Marion Marsh si intravedeva per qualche altro attimo. In effetti, faceva esattamente le stesse identiche cose di tutte le altre damigelle, e la si vedeva per non più di quattro secondi, prima che il suo viso venisse nascosto da un braccio che si sollevava. Ma mi aveva catturato; si era fatta un fan. E, annuendo, dissi a me stesso che anche in quella scena così breve lei spiccava fra le altre. Fine, disse il sottotitolo sullo schermo. La musica di pianoforte svanì mentre io mi alzavo per andare a spegnere il televisore, prima che il tizio col cravattino tornasse a spiegarci cosa avevamo visto. — Be’, Marion — dissi, mormorando nel silenzio appena nato — eri grande. Assolutamente grande.

— Sì.

La luce del televisore si stava riducendo alle dimensioni di un minuscolo diamante. Io rimasi immobile, col sangue che defluiva dalla superficie della mia pelle. Misi al lavoro il cervello, in cerca di alternative. Ma non ce n’erano. Non potevo negare l’inconfondibile differenza tra una cosa semplicemente immaginata e una cosa reale. Sapevo di avere veramente sentito quell’unica parola, pronunciata con perfetta chiarezza, da una voce femminile piacevolmente rauca che non era quella di Jan. L’idea di muovermi non mi andava a genio, però mi mossi; girai la testa a scrutare l’intera stanza, nella fioca luce che entrava dalle finestre. Una trave del soffitto emise un crepitio legnoso, contraendosi dopo il caldo della giornata; ma sapevo di cosa si trattava, c’ero abituato, e continuai a frugare la stanza con gli occhi.

Il buio non era sufficiente per permettere a qualcuno di nascondersi, e non si vedeva nessuno. Lo sapevo già; sapevo più di quanto volessi permettermi di ammettere; e i capelli sulla nuca e i peli sulle mie braccia erano diritti, elettrici.

— Nick, sono io.

— Chi?

— Marion — rispose la voce, spazientita.