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«Amico mio», disse il signor Whitlow con solennità, piegandosi in avanti e puntando il suo sguardo sull’anziano dal carapace argenteo, «detesto la guerra come il male più abbietto, e giudico il fatto di prender parte ad essa come il crimine più grande. Nondimeno, sarei pronto a sacrificare me stesso, come lei suggerisce, se ciò bastasse a raggiungere i miei fini. Sfortunatamente non posso. Non avrebbe l’effetto psicologico che desidero. Inoltre…» e fece una pausa imbarazzata, «… tanto vale che vi confessi che non sono del tutto padrone dei miei poteri. Non li capisco. L’opera di qualche inscrutabile provvidenza ha messo nelle mie mani un congegno che è probabilmente il manufatto di creature la cui intelligenza trascende mille volte quelle che abitano il nostro sistema solare, o addirittura il nostro universo. Ed è grazie a questo congegno che posso attraversare lo spazio e il tempo, protetto dai pericoli. Esso mi fornisce calore e luce, concentra intorno a me una sfera d’aria così da consentirmi di respirare normalmente. Ma in quanto a usare questo congegno in maniera più ampia… avrei una mortale paura che possa sfuggire al mio controllo. L’unico, piccolo esperimento in tal senso da me fatto è stato disastroso. Non oserei mai più».

Il coleotteroide anziano inviò un pensiero al suo capo su una frequenza riservata: «Devo tentare d’ipnotizzare la sua mente turbata, facendomi consegnare da lui questo congegno?»

«Sì, fallo».

«Benissimo. Tuttavia temo che quel congegno proteggerà la sua mente, oltre al suo corpo. Tuttavia, vale la pena tentare».

«Signor Whitlow», pensò d’un tratto il capo, «è giunto il momento di passare ad argomenti più concreti. Ogni sua successiva parola fa sembrare la sua proposta ancor più irrazionale, e i suoi motivi sempre più incomprensibili. Se si aspetta che noi mostriamo un serio interesse, deve dar subito una chiara risposta a questa domanda: perché vuole che attacchiamo la Terra?»

Whitlow si contorse tutto: «Ma è proprio la domanda alla quale non posso rispondere».

«Mettiamola così, allora», continuò il capo, paziente. «Quale vantaggio personale si aspetta di conseguire dal nostro attacco?»

Whitlow si erse in tutta la sua statura e si raddrizzò la cravatta:

«Nessuno! Nessuno in assoluto! Non cerco niente per me stesso!»

«Vuole dominare la Terra?» insisté il capo.

«No! No! Detesto ogni forma di tirannia».

«Una vendetta, allora? La Terra le ha fatto del male e lei sta cercando di ripagarla con la stessa moneta?»

«Assolutamente no! Non mi piegherei mai a un simile barbaro comportamento. Io non odio nessuno. Il desiderio di vedere qualcuno ferito è la cosa più lontana dai miei pensieri».

«Suvvia, suvvia, signor Whitlow! Ci ha appena sollecitato ad attaccare la Terra. Come può far quadrare questo coi suoi sentimenti?»

Whitlow si rosicchiò il labbro, perplesso.

Il capo approfittò della pausa per una rapida domanda al coleotteroide anziano: «Qualche progresso?»

«Nessuno. Afferrare la sua mente è straordinariamente difficile. E, come avevo previsto, c’è uno schermo».

Whitlow scrollò le spalle, gli occhi fissi all’orizzonte bordato di stelle.

«Vi dirò questo», riprese. «È soltanto perché amo moltissimo la Terra e l’umanità, che voglio che voi l’attacchiate».

«Ha scelto uno strano modo di dimostrare il suo affetto», dichiarò il capo.

«Sì», continuò Whitlow, accalorandosi ancor di più, gli occhi ancora perduti lontano. «Voglio che lo facciate per porre fine alla guerra».

«Questa faccenda sta diventando sempre più misteriosa. Scatenare una guerra per farla cessare? Questo è un paradosso che richiede una spiegazione. Faccia attenzione, signor Whitlow, o io stesso cadrò nel vostro errore di giudicare tutti gli alieni mostri malefici e dementi».

Whitlow distolse lo sguardo dall’orizzonte e lentamente lo abbassò sul capo. Sospirò. «Immagino che farò meglio a dirvelo», borbottò. «È probabile che alla fine l’avreste scoperto lo stesso. Anche se sarebbe stato più semplice nell’altra maniera…»

Spinse indietro la capigliatura ribelle e si massaggiò la fronte mostrando un po’ di stanchezza. Quando riprese a parlare, lo fece con un tono assai meno retorico: «Sono un pacifista. Ho dedicato la vita al compito di prevenire la guerra. Amo i miei simili. Ma essi sono immersi fino al collo negli errori e nel peccato. Sono vittime delle loro più basse passioni. Invece di marciare fiduciosi, la mano nella mano, verso il glorioso conseguimento dei loro sogni, insistono a impegolarsi nei più assurdi conflitti, nelle guerre più abbiette».

«Forse c’è un motivo», suggerì il capo, in tono pacato. «Alcune diseguaglianze che devono esser livellate per…»

«Per favore», l’interruppe il pacifista in tono di rimprovero. «Queste guerre sono diventate sempre più violente e terribili. Io, ed altri, abbiamo tentato di ragionare con la maggioranza, ma invano. Essi persistono nella loro idea fissa. Mi sono lambiccato il cervello per trovare una soluzione. Ho preso in considerazione qualunque rimedio concepibile. Dall’istante in cui sono venuto in possesso di… ehm… del congegno, ho cercato per tutto il cosmo, perfino in altre correnti temporali, il segreto per prevenire la guerra. Senza successo. Tutte le razze intelligenti che ho incontrato o sono impegnate in qualche guerra, il che le esclude automaticamente, oppure non hanno mai conosciuto la guerra — questi erano molto gentili, ma com’è ovvio non potevano fornirmi nessuna indicazione utile. Altri ancora si sono lasciati la guerra alle spalle attraverso il doloroso e orribile procedimento di combattere finché non è rimasto più nulla per cui combattere».

«Come abbiamo fatto noi», fu il fuggevole pensiero del capo.

Il pacifista allargò le braccia, il palmo delle mani rivolto al cielo: «Così, mi ritrovai una volta ancora abbandonato alle mie proprie risorse. Studiai allora l’umanità da ogni angolazione. E a poco a poco mi convinsi che la sua peggiore caratteristica, quella più d’ogni altra responsabile della guerra, era una straripante presunzione. Sul mio pianeta l’uomo è il signore della creazione. Ogni altra specie animale è una fra le tante, nessuna è preminente. I carnivori hanno i loro rivali carnivori. Ogni animale che bruca o che pascola compete con un gran numero di altre specie analoghe per ciò che riguarda l’erba e i germogli. Perfino i pesci del mare e la miriade di parassiti che pullulano nel sangue si trovano suddivisi in specie di capacità e habitat press’a poco uguali. Ciò induce umiltà e senso della prospettiva. E nessuna di queste specie è incline a combattere contro se stessa quando si rende conto che, farlo, significherebbe soltanto aprire la strada al predominio di altre specie. Soltanto l’uomo non ha nessun vero rivale, nessun’aitra specie in grado d’impensierirlo. E il risultato è che ha sviluppato manie di grandezza… di persecuzione e odio. E poiché gli manca il freno che gli verrebbe offerto da una seria rivalità con altre specie, inquina il suo nido planetario scatenando in continuità guerre civili.

«È un bel po’ che sto rimuginando su quest’idea. Ho pensato con nostalgia a quanto sarebbe stato diverso lo sviluppo dell’umanità, se fosse stata costretta a condividere il suo pianeta con qualche altra specie di pari intelligenza, ad esempio un abitante dei mari col genio per la meccanica. Ho riflettuto sul fatto che, quando avvengono grandi catastrofi naturali, incendi, inondazioni, terremoti, pestilenze, l’uomo sembra abbandonare temporaneamente tutti i litigi, e tutti si mettono a lavorare insieme, d’amore e d’accordo: i ricchi coi poveri, gli amici coi nemici. Sfortunatamente una simile collaborazione dura solo fino a quando l’uomo non riesce a imporre di nuovo il suo dominio sopra l’ambiente. Questi disastri, queste catastrofi, non sono una minaccia tale da farlo rinsavire una volta per tutte. E allora… mi è venuta un’ispirazione».