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Avanzai cautamente nella stanza. Era una specie di spogliatoio. C’erano vetri e detriti sul pavimento ed un’intera fila di armadietti metallici con tutta la vernice scrostata; l’onda d’urto era passata attraverso le finestre, molti anni fa. Le mie scarpe da tennis non facevano nessun rumore mentre mi aggiravo per la stanza.

La porta pendeva da un cardine e io scavalcai l’apertura a forma di triangolo. Ero nella zona della piscina. La grande vasca era vuota, con le piastrelle deformate sul lato più basso. C’era un terribile odore, lì dentro. Niente di strano, lungo una parete vidi dei cadaveri, o quello che ne restava. Qualche addetto scrupoloso li aveva allineati, ma non li aveva sepolti. Sollevai il fazzoletto per coprirmi il naso e la bocca, e proseguii.

Oltrepassai la piscina e mi infilai in un piccolo passaggio dal cui soffitto pendevano delle lampadine ormai fuori uso. Ma c’era abbastanza luce. Il chiarore della luna entrava dalle finestre sventrate e dal tetto pendeva una trave. Adesso la potevo udire chiaramente, proprio dall’altra parte della porta all’estremità del passaggio. Mi appiattii contro la parete ed avanzai piano verso la porta. Era socchiusa, ma bloccata da calcinacci e assi caduti dalla parete. Avrebbe fatto rumore se avessi cercato di aprirla, questo era certo. Dovevo aspettare il momento giusto.

Appiattito contro la parete, controllai quello che stava facendo. Era in una palestra, molto grande, con varie funi che pendevano dal soffitto. Aveva una grossa pila quadrata appoggiata tra le maniglie del cavallo. C’erano parallele e sbarre orizzontali alte circa due metri, con la parte metallica tutta arrugginita. Vidi inoltre gli anelli, una pedana elastica ed un grande asse d’equilibrio in legno. Lungo una parete erano allineate una spalliera, delle scale oblique e orizzontali e, ammucchiate qua e là, numerose aste per il salto. Mi ripromisi di tornare in questo posto. Per allenarsi era certo meglio della palestra di fortuna che avevo ricavato in quel deposito di auto in demolizione. Un ragazzo deve mantenersi in forma se vuole essere un singolo.

Si era tolta il travestimento. Era là, nuda, e tremante. Sì, faceva davvero freddo, e vidi che aveva la pelle d’oca su tutto il corpo. Aveva un bel paio di tette e le gambe magre. Si stava spazzolando i capelli, che le arrivavano a metà schiena. La luce della pila non era abbastanza forte per capire se avesse i capelli rossi o castani, ma di certo non erano biondi; meglio così perché io preferisco le rosse. Aveva delle belle tette, però. Non riuscivo a vederla bene: il volto era seminascosto dai capelli soffici e ondulati.

Gli indumenti che aveva indossato poco prima erano sparsi sul pavimento e quelli che stava per infilarsi erano appoggiati al cavallo. Era lì in piedi con delle scarpette con dei buffi tacchi.

Non riuscivo a muovermi. Mi accorsi all’improvviso che non riuscivo a muovermi. Era carina, proprio carina. Mi era diventato duro solo rimanento lì a guardare la vita snella e la curva dei suoi fianchi, e come si muovevano i muscoli ai lati delle tette quando sollevava le braccia per spazzolarsi i capelli. Era veramente incredibile come mi fossi eccitato soltanto stando a guardare una pollastra che si pettinava. Era molto… be’, donna. Mi piaceva un sacco.

Non mi ero mai fermato a guardarne una in quel modo. Tutte quelle che avevo visto erano ciarpame che Blood aveva fiutato per me, e io le avevo prese con la forza. O quelle grosse pollastre dei film porno. Non come questa, così liscia e morbida, anche con la pelle d’oca. Avrei potuto rimanere a guardarla tutta la notte.

Mise giù la spazzola e si sporse per prendere un paio di pantaloncini dal mucchio di abiti e se li infilò. Poi prese il reggiseno e si infilò anche quello. Non sono mai riuscito a capire come fanno le ragazze. Se lo mise al contrario, agganciandolo. Poi lo girò finché le coppe si trovarono sul davanti, lo tirò su, sistemandolo sui seni, e infine sollevò le spalline. Prese il vestito ed io spostai con il gomito le assi ed i calcinacci e afferrai la porta per spalancarla. Lei aveva appena sollevato il vestito e vi aveva infilato le braccia, e quando cercò di farci passare la testa, rimase impigliata per un attimo; io spalancai la porta, ci fu uno schianto mentre mi liberavo dei calcinacci e delle assi, e poi un rumore di passi mentre saltavo dentro e la afferravo prima che avesse tempo di uscire dal vestito.

Lei comincio a gridare e io le strappai il vestito, e tutto successe così in fretta che lei non fece in tempo a capire che cosa fosse tutta quella confusione.

Era terrorizzata. Proprio terrorizzata. Occhi spalancati: non riuscii a distinguere il colore perché erano in ombra. Lineamenti davvero fini, bocca ampia, naso piccolo, zigomi proprio come i miei, alti e sporgenti, ed una fossetta sulla guancia destra. Mi fissava terrorizzata.

E allora… questo è davvero incredibile… mi sentii come se dovessi dirle qualcosa. Non so che cosa. Solo qualcosa. Mi metteva a disagio vederla spaventata, ma che cosa diavolo ci potevo fare. Voglio dire, dopo tutto stavo per violentarla e non potevo certo dirle di prenderla allegramente. Era lei quella che era venuta su, dopo tutto. Ma anche così volevo dirle: ehi, non aver paura. Voglio solo scoparti. (Questo non era mai successo prima. Non avevo mai avuto voglia di dire niente ad una pollastra, soltanto farlo e basta.)

Ma la sensazione passò, e le misi una gamba dietro le sue facendola cadere. Le puntai contro la 45 e la sua bocca ebbe un moto di sorpresa. — Adesso vado là e prendo uno di quei materassini, così andrà meglio, più comodo, eh? Prova a muoverti dal pavimento e ti faccio partire una gamba, e poi ti scoperò lo stesso, solo che tu sarai senza una gamba. — Aspettai che mi facesse capire di aver afferrato il concetto, e finalmente lei accennò di sì con la testa, adagio, così continuai a tenerla sotto tiro con la pistola, mi diressi verso una pila di materassi polverosi e ne tirai fuori uno.

Lo trascinai verso di lei e lo voltai sul lato più pulito, usando la canna della 45 per chiarirle le mie intenzioni. Lei si sedette sopra il materasso, con le mani dietro la schiena e le ginocchia piegate, e continuò a fissarmi.

Abbassai la cerniera dei pantaloni e cominciai a sfilarmeli, quando mi accorsi che mi guardava in modo strano. Mi fermai. — Che cosa stai guardando?

Ero arrabbiato. Non sapevo perché, ma ero arrabbiato.

— Come ti chiami? — mi chiese. Aveva una voce morbida e vellutata, come se venisse direttamente dalla gola foderata di pelliccia, o qualcosa del genere.

Continuò a guardarmi, aspettando una risposta. — Vic — dissi io. Lei continuò a guardarmi come se si aspettasse altro.

— Vic e poi?

Per un attimo non capii quello che voleva dire, poi:

— Vic. Solo Vic. Nient’altro.

— Be’, qual è il nome dei tuoi genitori?

Allora cominciai a ridere e continua a sfilarmi i pantaloni.

— Sei proprio suonata! — dissi, e continuai a ridere sempre più forte. Lei sembrò ferita. Questo mi fece di nuovo arrabbiare. — Smettila di guardarmi in quel modo o ti spacco i denti.

Lei congiunse le mani in grembo.

Avevo i pantaloni arrotolati intorno alle caviglie. Non riuscivo a toglierli con le scarpe. Dovetti stare in bilico su di un piede solo mentre con l’altro cercavo di togliere la scarpa. Era difficile tenere puntata la pistola e allo stesso tempo togliere le scarpe, ma ci riuscii.