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Io le chiesi com’era dove viveva lei, in uno dei sotterranei.

— È bello. Ma è sempre così tranquillo. Tutti sono così educati con tutti. È una piccola cittadina.

— In quale vivi?

— A Topeka. È molto vicino.

— Sì, lo so. Lo scivolo d’accesso è solo a mezzo miglio da qui. Ci sono andato una volta, per dare un’occhiata in giro.

— Sei mai stato in un sotterraneo?

— No, e non credo neppure di volerci andare.

— Perché? È molto carino. Ti piacerebbe.

— Balle.

— Questo è molto sgarbato.

— Io sono molto sgarbato.

— Non sempre.

Mi stavo arrabbiando. — Ascolta, stupida, che cosa ti succede? Ti ho rapito, ti ho violentato una dozzina di volte, che cosa c’è di buono in me, eh? Che cosa ti succede, non sei nemmeno abbastanza furba da capire quando qualcuno…

Lei mi stava sorridendo. — Non mi importa. Mi è piaciuto farlo. Vuoi farlo ancora?

Ero davvero sbalordito. Mi allontanai da lei. — Che cosa c’è che non funziona in te? Non lo sai che una pollastra come te, che viene dai sotterranei può davvero finire male con i singoli? Voi ragazze non siete state avvertite dai vostri genitori nei sotterranei: «Non andate in superficie, o sarete preda di quegli sporchi, pelosi e bavosi singoli!» Non lo sai questo?

Lei appoggiò una mano sulla mia gamba e cominciò a farla scivolare verso l’alto, con le dita che appena mi sfioravano le cosce. Mi eccitai di nuovo. — I miei genitori non hanno mai detto quelle cose dei singoli — disse. Poi mi attirò a sé, mi baciò e io non potei trattenermi dal prenderla ancora.

Dio, andò avanti così per ore. Dopo un po’ Blood si voltò e disse: — Non posso più fare finta di dormire. Ho fame. E sono ferito.

Mi liberai della sua stretta (questa volta era lei sopra di me) e lo esaminai. Quel dobermann gli aveva dato un bel morso all’orecchio destro, e aveva una ferita sul muso, e il pelo impastato di sangue su di un fianco. Era davvero malconcio.

— Gesù, sei ridotto male — dissi.

— Nemmeno tu sei una rosellina, Albert — scattò lui. Io ritirai la mano.

— Possiamo uscire di qui? — gli chiesi.

Lui scosse la testa. — Non riesco a ricevere niente. Deve essere l’ammasso di calcinacci sopra questa caldaia. Devo uscire per una ricognizione.

Discutemmo un po’ sul da farsi e alla fine decidemmo che se l’edificio era raso al suolo e si era raffreddato abbastanza, a quest’ora la banda avrebbe già dovuto aver finito di rovistare tra le ceneri. Il fatto che non avessero cercato nella caldaia indicava che dovevamo essere sepolti per benino. Oppure che l’edificio stava ancora bruciando. In quel caso dovevano ancora essere là fuori ad aspettare di poter setacciare i resti.

— Pensi di farcela, nelle condizioni in cui sei ridotto?

— Immagino di doverlo fare, vero? — disse Blood. Era davvero acido. — Voglio dire, con voi due occupati a fottervi il cervello, non resta altro da fare se vogliamo sopravvivere, no?

Mi accorsi che era arrabbiato. Non gli piaceva Quilla June. Gli girai intorno e cercai di aprire il portello della caldaia. Non si aprì. Allora mi appoggiai ad una parete, sollevai le gambe e cominciai a spingere adagio ma con decisione.

Qualunque cosa lo avesse bloccato dall’esterno resistette per un attimo, poi cominciò a cedere e alla fine cadde con uno schianto. Aprii completamente la porta e mi guardai attorno. I piani superiori erano crollati nel seminterrato, ma quando avevano ceduto erano già ridotti in cenere e detriti leggeri. Là fuori c’era fumo dappertutto. Attraverso la spessa coltre riuscii a vedere la luce del giorno.

Scivolai fuori, scottandomi le mani sul bordo esterno dello sportello. Blood mi seguì. Cominciò ad aprirsi la strada tra i detriti. Vidi che la caldaia era stata quasi interamente ricoperta dai calcinacci che erano caduti dai piani superiori. C’erano buone probabilità che la banda avesse dato solo una rapida occhiata, immaginando che fossimo finiti arrosto, e alla fine avesse rinunciato. Ma comunque volevo che Blood facesse una ricognizione. Lui partì, ma io lo richiamai indietro. Lui tornò.

— Che cosa c’è?

Abbassai lo sguardo su di lui. — Te lo dico io cosa c’è. Ti stai comportando come uno stronzo.

— E allora?

— Dannazione, che cosa ti ha preso?

— Lei. Quella pollastra che hai là dentro.

— E con questo? Sai che roba… ho avuto altre pollastre prima d’ora.

— Sì, ma mai nessuna come questa. Ti avviso, Albert. Quella ti darà dei guai.

— Non fare lo scemo! — Lui non rispose. Si limitò a guardarmi con rabbia, poi scappò via per controllare come stavano le cose. Rientrai a carponi e richiusi lo sportello. Lei voleva farlo ancora. Io dissi che non ne avevo voglia; Blood mi aveva messo a terra. Ero di cattivo umore. E non sapevo con chi dei due prendermela.

Ma Dio se era carina.

Lei mi tenne un po’ il broncio e si sdraiò con le braccia consorte. — Dimmi qualcosa di più sui sotterranei — dissi.

All’inizio si mostrò irritata e non volle dire molto, ma poi si sgelò e cominciò a parlare liberamente. Stavo imparando parecchio. Immaginai che mi sarebbe servito, una volta o l’altra.

C’erano solo un paio di centinaia di città sotterranee in quello che restava degli Stati Uniti e del Canada. Erano state ricavate da pozzi di vecchie miniere o altre cavità molto profonde. Alcune di esse, nell’ovest, erano all’interno di caverne naturali. Erano molto in profondità, dalle due alle cinquanta miglia. Erano come grossi contenitori, incassati a fondo. E quelli che li avevano creati erano dei puritani della peggior specie. Battisti, fondamentalisti, bacchettoni, veri babbei borghesi senza alcun gusto per la vita avventurosa. Ed erano ritornati ad un genere di vita che era scomparso da più di centocinquant’anni. Avevano usato gli ultimi scienziati per fare il lavoro, per progettare ciò di cui avevano bisogno, e poi se ne erano liberati. Non volevano alcun progresso, nessun dissenso; nulla che potesse causare del turbamento. Ne avevano avuto abbastanza. L’epoca migliore era stata quella precedente alla Prima Guerra, e avevano pensato che continuando così avrebbero potuto avere una vita tranquilla e sopravvivere. Merda! Sarei impazzito in uno dei sotterranei!

Quilla June sorrise e mi venne di nuovo vicino, e questa volta non la respinsi. Ricominciò a toccarmi, là sotto e dappertutto e poi disse: — Vic?

— Uh-huh?

— Sei mai stato innamorato?

— Che cosa?

— Innamorato. Innamorato di una ragazza?

— Be’, direi proprio di no, accidenti.

— Sai che cos’è l’amore?

— Certo. Credo di saperlo.

— Ma se non sei mai stato innamorato…

— Non essere scema. Voglio dire, non ho mai preso una pallottola in testa e so che non mi piacerebbe.

— Non sai che cos’è l’amore, ci scommetto.

— Be’, se significa vivere nei sotterranei, credo proprio di non volerlo scoprire.

Dopo di che non parlammo più molto. Lei mi spinse giù e lo facemmo di nuovo. E quando fu finito, udii Blood che grattava contro la caldaia. Aprii lo sportello e lui era lì fuori. — Via libera — disse.

— Sicuro?

— Sì, sì, sicuro. Infilati i pantaloni — disse con un po’ di scherno nella voce, — ed esci di lì. Dobbiamo parlare.

Lo guardai e vidi che non stava scherzando. Mi rimisi i pantaloni e le scarpe da tennis e uscii dalla caldaia. Ci allontanammo e lui mi fece una predica di mezz’ora a proposito delle nostre responsabilità reciproche. Io ero d’accordo con lui e gli dissi che l’avrei seguito, come sempre, e lui mi minacciò dicendomi che avrei fatto bene a farlo, perché c’erano un paio di singoli piuttosto in gamba in giro per la città che sarebbero stati molto contenti di avere un abile segugio come lui. Gli dissi che non mi piaceva essere minacciato e che avrebbe fatto meglio a fare attenzione a dove metteva i piedi, o gli avrei rotto una gamba. Lui si infuriò e se ne andò. Lo mandai a farsi fottere e ritornai alla caldaia per vedermela ancora con quella Quilla June.