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Uno scalpitare di zoccoli interruppe le sue riflessioni: scrutò nella pioggia. Un cavallo senza cavaliere galoppava lungo la spiaggia, verso di lei; contro il cielo del crepuscolo non riusciva a vedergli gli occhi, ma solo la testa nerissima, e il corpo, come un lucido frammento di notte. Un lungo nastro d’alghe si era impigliato a uno zoccolo. La raggiunse e passò oltre, mentre la risacca s’insinuava tra le sue impronte.

Fiord emise un grido strozzato e subito cominciò a correre, senza sapere esattamente perché e dove. Il mondo sembrava fatto di due soli colori: il grigio cupo di cielo, scogli, acqua, e il bianco brumoso della spuma e delle ali di gabbiano. I mitili si sparpagliarono sulla spiaggia; il vento le strappò dalla testa il cappuccio, scompigliandole i capelli. Finalmente vide la capanna: non c’era il barlume del fuoco, alla finestra, e la porta era chiusa. Rallentò il passo, con gli occhi che frugavano la spiaggia. Sul ciglio del mare, metà dentro l’acqua, metà fuori, individuò una striscia scura. Riprese a correre.

Era Kir, faccia in giù nella sabbia. Cadde in ginocchio accanto a lui, lo rovesciò sulla schiena. Aveva un volto spettrale, inerte. Non lo sentiva respirare; si alzò, afferrandolo per le mani, e cercò di strapparlo all’abbraccio insidioso della marea. Tirò con tutte le sue forze, una, due volte. Aveva gli abiti appesantiti d’acqua e sabbia: non riusciva quasi a smuoverlo. Spostò la presa sui polsi, e diede un energico strattone. E Kir riprese i sensi, mentre fiotti d’acqua salata gli sgorgavano dalla bocca. Fiord gli lasciò i polsi e lui si piegò su un fianco, il corpo ansimante. D’improvviso i suoi respiri affannosi, rauchi, si trasformarono in singhiozzi: «Non so cosa fare! Non so cosa fare!» gridava. «Cosa devo fare? Io appartengo al mare, e il mare non mi vuole; non riesco a sopportare questa terra, e la terra non mi lascia andar via!»

«Oh!» bisbigliò Fiord, mentre lacrime ardenti le rigavano il viso. «Oh!» Tornò ad inginocchiarsi su di lui, e lo cinse tra le braccia, tenendolo stretto a sé, goffamente. Sentiva raspare sulla guancia la sabbia dei suoi capelli, avvertiva l’odore di mare delle sue vesti. La marea ribolliva intorno a loro, sollevandosi adagio.

«Dev’esserci un modo, deve! E lo troveremo» disse Fiord, d’impulso. «Ti aiuterò a trovare quel sentiero, te lo prometto, te lo prometto…»

Lo sentì acquetarsi contro di lei, quasi abbandonarsi. Poi, lentamente, Kir si volse, si mise in ginocchio, stancamente le posò le braccia intorno al collo, le mani intrecciate ai suoi capelli, il viso premuto al suo viso. Non parlò più: si tenne stretto a lei finché la marea ruggì intorno a loro, tra loro, costringendoli a scegliere fra terra e mare, se andar via o rimanere per sempre.

Capitolo quinto

Per svariati giorni Enin e Tull rimasero assenti dal villaggio. Gli altri pescatori uscivano in mare per brevi, pericolosi intervalli, e quando si ritrovavano alla locanda le loro storie erano piene di allarmanti descrizioni: le nuove, violente burrasche cui erano scampati; le strane, incredibili cose che avevano tratto dagli abissi. Ogni tanto, passando tra loro, Fiord udiva rapidi accenni a incantesimi e stregonerie, seguiti da improvvisi silenzi, come se tutti quanti si disegnassero, dietro i boccali di birra, il grande, potentissimo mago che in quel preciso momento Enin e Tull stavano convincendo a lasciare la città. Non si parlava più di oro, adesso, per timore che quella parola filtrasse da sotto la porta finendo negli avidi, curiosi occhi degli ospiti esterni. L’oro era a portata di mano, e i pescatori aspettavano, fiduciosi.

Poi, per qualche tempo, il villaggio fu invaso dalla gente più stramba. Carey si prese la briga di contare quattordici prestigiatori, sei indovini, nove sedicenti alchimisti, i quali (osservò acidamente) non sapevano neppure trasformare in spiccioli una moneta d’oro; quattro maldestre fattucchiere e un numero imprecisato di cenciosi stregoni, che coi loro sortilegi non avrebbero saputo forzare un chiavistello di porta, figuriamoci una catena magica.

I pescatori li accolsero con palese ostilità; e quelli, a loro volta, dopo aver scrutato i flutti tumultuosi senza discernere tracce d’oro né segno di draghi, non esitarono a sbeffeggiarli, trattandoli da visionari ubriachi. Uno dopo l’altro si trascinarono di nuovo in città; e i pescatori tornarono a ingobbirsi sui loro boccali di birra, deridendo la stupidità di Enin e Tull, e continuando a fantasticare sul luccicante tesoro che li aspettava da qualche parte, oltre gli spruzzi della risacca.

Persa com’era nei suoi pensieri privati, Fiord si era a malapena accorta di quell’eterogenea marmaglia di città, salvo quando le toccava scansare la palla di un giocoliere, o lo scheletrico gatto di una strega. E il mattino in cui cessarono finalmente le burrasche, a malapena si accorse dell’improvviso silenzio. Il sole gettava sui pavimento una chiazza di luce ormai insolita, e lei vi passava e ripassava il suo strofinaccio, come se fosse un’ennesima pozzanghera da ripulire. Era assorta a immaginare quel mondo subacqueo che Kir desiderava così disperatamente. Dove sarebbe andato, quella notte, se avesse trovato l’ingresso al freddo cuore del mare? In che cosa si sarebbe trasformato? Una creatura d’acqua e di perla, figlia della marea… Aggrottando la fronte, spazzò via il ricordo: le sue dita fra i capelli, il suo gelido bacio sulla guancia, il suo bisogno di lei, di un essere umano cui aggrapparsi.

In terraferma, se non altro, lei lo poteva toccare.

«Fiord!» disse Marli, e Fiord, sussultando, emerse dalle profondità dei suoi pensieri. «Sono venti minuti che lavori sulla stessa piastrella. Cerchi forse di arrivare dall’altra parte del mondo?»

«Oh!» Automaticamente spinse avanti il secchio, trovando Marli sulla sua strada.

«Tutto bene, ragazza?» chiese lei, immobile.

«Sì, sì, sto benissimo!»

«Sei così silenziosa, ultimamente.»

«Sto bene, ho detto!» ripeté Fiord.

«Pene d’amore, eh?» sorrise Marli, e si decise a spostarsi. «Quando hai finito l’atrio, vieni su ad aiutarmi nelle camere.»

Con un grugnito d’assenso, Fiord spinse avanti il secchio e tornò ad aggrottare la fronte, perdendosi di nuovo nei suoi pensieri: l’ondata d’acqua saponata che spedì lungo il pavimento si trasformò in spumeggiante marea.

Ci fu uno schianto improvviso. La porta si era spalancata per una vigorosa folata di vento, nel momento esatto in cui qualcuno vi si stava appoggiando per entrare. Alzando gli occhi, Fiord vide uno sconosciuto che perdeva l’equilibrio sulla viscida schiuma del sapone. Per un po’ si tenne in piedi, tra goffe piroette (e alle sue spalle, dietro la porta spalancata, Fiord notò finalmente le luminose schiere di nuvole e l’azzurro brillante del cielo), poi, con un ultimo frenetico annaspare di braccia, cadde lungo disteso per terra e scivolò lungo l’atrio, finché andò a sbattere contro il secchio, rovesciandolo, e fermandosi sotto la faccia sbigottita di Fiord.

Si fissarono l’un l’altra, naso a naso. Lo straniero giaceva supino, ansimando. Ammutolita, Fiord si accoccolò sulle ginocchia, con lo spazzolone a mezz’aria che gli gocciolava sulla testa.

Dopo un momento lo straniero sorrise. Era un giovanotto smilzo e dinoccolato, con lunghi capelli scuri e la pelle di un bruno lucente. Aveva occhi stranissimi: un vivido azzurro-verde-grigio, come le cangianti tonalità delle pietre sotto il sole. Si girò di fianco, sul pavimento inondato d’acqua, appoggiando il mento ad una mano.