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Ma come poteva gettare i suoi malefici così al largo che il mare non glieli risputasse subito a riva?

Il problema continuò ad assillarla anche il giorno dopo, alla locanda. In silenzio, la fronte aggrottata, strofinava avanti e indietro il pavimento, mentre Carey, poco più in là, cicalava senza tregua, descrivendo le meraviglie che aveva visto scaricare dalle navi del re: forzieri intarsiati e laminati d’oro, cavalli bianco-latte, cani grigi alti come pony, con fianchi sottili, musi aguzzi, occhi grigio-argento, vitrei e pieni di panico, come belle dame che emergono da una lunga e burrascosa crociera.

«E i collari, se vedeste, tempestati di smeraldi!»

«Smeraldi un corno!» esplose Marli, fulminandola con un’occhiataccia. «Vetro, ragazza mia, vetro. Questo non è un paese così ricco da permettere al re di ornare i suoi cani di smeraldi… Ehi, Fiord, hai i capelli nel secchio!»

Fiord strattonò vigorosamente la testa, e una massa di capelli bagnati le ricadde sulle spalle; si asciugò il naso col dorso della mano, pensando alle perle sulla camicia di Kir, al suo anello d’argento.

«Io voglio smeraldi!» ripeté Carey, in tono sognante. «E abiti di merletto, e anelli d’oro e…»

«Non li otterrai di certo standotene con le ginocchia nella schiuma di sapone!»

«Ieri, mentre portavo gli asciugamani puliti in una delle stanze, un signore in velluto verde mi ha detto che ero bella, e mi ha baciata.»

«Carey!» Marli era scossa. «Stai attenta! In autunno quei bei signori migreranno come oche selvatiche, e tu resterai inchiodata qui, con la pancia grossa!»

Carey continuò a fregare il pavimento, imbronciata. Fiord emerse dai suoi pensieri, e alzò gli occhi: «È stato bello?» le chiese, incuriosita.

Per un attimo Carey non rispose; poi piegò la bocca in una smorfia e scosse le spalle: «Aveva i baffi che sapevano di birra.»

«Velluto verde…» borbottò Marli. «Spero proprio che prima o poi finisca a mollo, sotto un’ondata come si deve.»

Mentre tornava alla capanna, quel pomeriggio, Fiord notò che la marea era singolarmente bassa, così bassa che perfino le grandi guglie si rizzavano nude dal fondale, esponendo i fianchi coperti di anemoni, ricci e stelle marine. Si vedeva di rado una marea così bassa. Oltre le guglie il mare sognava dolcemente, un azzurro lattiginoso che il sole del tramonto punteggiava di vampe improvvise. Le scarpe appese per i legacci a una spalla, Fiord camminava lentamente, osservando le bollicine che sbocciavano sulla sabbia umida, là dove si erano nascosti i molluschi.

Fiord alzò gli occhi, scrutò la lunga scia luminosa che il sole morente disegnava sull’acqua, una lucentezza così piatta e immobile che sembrava di poterla calpestare. Rallentò il passo, le labbra socchiuse, gli occhi colmi di luce, incantati. Poteva avviarsi sul sentiero del sole, con la stessa semplicità con cui camminava sulla terraferma, fino a trovare… laggiù, nel cuore della luce… il reame dorato, il reame di…

Si fermò, scrollando dalla testa i pensieri come un cane si scrolla dall’acqua; poi cominciò a correre.

Scaraventò le scarpe in un angolo della capanna, afferrò le ghirlande dal tavolo, pescò dal vaso il messaggio di Kir e attraversò di corsa la spiaggia, verso le guglie, verso il sole, che creava tra esse un’illusione tentatrice, come se quelle fossero i pilastri spezzati di un antico cancello d’ingresso al paese, nascosto sotto le onde.

La marea s’acquattava pigra poco oltre le guglie, dove il fondale scendeva bruscamente in una ripida scarpata. Qui si fermò Fiord: sollevò le ghirlande, legate insieme e intrecciate al messaggio di Kir, e le lanciò in acqua con tutte le sue forze.

«Ti maledico!» gridò, cercando le parole più pungenti, acri come il salmastro. «Mi fai orrore! Ti detesto! Ti odio! Getto su di te la mia maledizione, Mare, così che si sciolgano tutti i tuoi incantesimi, e la tua magia si confonda, e tu non possa mai più impadronirti di cose o persone che ci appartengono, e lasci libero tutto ciò che hai…»

S’interruppe, perché le ghirlande, che prima galleggiavano leggere sulla cresta di un’onda, erano improvvisamente scomparse. Restò in attesa, scrutando l’acqua, desiderando che non accadesse nulla, desiderando che accadesse qualcosa. Una bollicina scoppiò in superficie, come un singhiozzo, a pochi metri di distanza.

Fiord s’accostò all’umido fianco di una guglia, cosparso di stelle marine. Era finalmente riuscita, si domandava inquieta, ad attrarre l’attenzione del mare?

Ed ecco il mare gonfiarsi davanti a lei, fiammeggiando. Fiord mandò un debole grido: con gli occhi sbarrati, lo vide dilatarsi e sollevarsi ancora, come una rossa, gigantesca muraglia d’acqua scrosciante, sempre più alta, fino a nascondere il sole: al suo posto ora brillavano due grandi pozze di luce, così enormi da poterci navigare dentro. E vide affiorare lunghi, lunghissimi filamenti di fuoco, che vorticavano elegantemente tra le onde. E poi lampi d’oro le riempirono gli occhi, più abbacinanti del sole.

Sbatté le palpebre, ansimando, e le tonde pozze di luce parvero ammiccare. Sull’acqua alitò un sospiro che sapeva di gamberi e alghe.

Fiord indietreggiò, cercando di aggrapparsi allo scoglio, come una patella. «Oh!» mormorò, la gola così riarsa dal terrore che quasi non ne usciva alcun suono. «Oh!»

Nell’acqua profonda, di là delle guglie, la fissava un fiammeggiante mostro marino, grande come una casa, come due case; le fauci fitte di fanoni, come la bocca di una balena; i traslucidi filamenti di fuoco che si srotolavano e arrotolavano languidamente nella spuma. Due pinne sopracciliari davano ai suoi grandi occhi un’espressione sorpresa.

Intorno al collo portava, a mo’ di collare, una colossale catena d’oro massiccio.

Capitolo terzo

Quella notte Fiord rimase con sua madre. Era convinta che il mare, seccato dalle sue continue molestie, avesse mandato un mostro degli abissi a divorarla. La madre non le chiese perché fosse rimasta con lei, ma la presenza di Fiord sembrava stimolarla, strappandola alla sua eterna contemplazione. Prese a osservare la figlia. Di quando in quando una domanda le tremava negli occhi; pareva sul punto di parlare. Ma Fiord distoglieva lo sguardo. Benché avesse la mente piena di draghi marini inghirlandati d’oro, Fiord serbava il suo segreto, come un’ostrica la perla: non voleva ammettere che la madre potesse avere ragione, che davvero esistesse un regno di luci e ombre nascosto fra gli ondeggianti banchi di alghe, in fondo al mare.

E Kir. Prima di addormentarsi evocò nitidamente la faccia del giovane: pallida e bruna e irrequieta, spiccava contro la selvaggia vastità azzurra del mare. Quale messaggio aveva mandato? si chiedeva nel sonno. E a chi?

Le promesse di primavera non si rivelarono altro che sogni, il mattino dopo. Erano cominciate le piogge d’aprile.

Mentre raggiungeva la locanda, inzuppandosi fino al midollo, Fiord continuò a riflettere sul drago, e in quel grigiore malinconico sentì che le sue paure si andavano vìa via dileguando. Al mondo non poteva esistere una creatura così gigantesca, ne era certa; né l’oro che le cingeva il collo poteva essere reale. E se davvero avesse voluto divorarla, l’avrebbe strappata allo scoglio come un anemone, paralizzata e impotente com’era. Un altro ricordo contribuì a rinfrancarla: il mostro non aveva denti. Attraverso i fanoni delle fauci potevano passare soltanto minuscoli granchi e frammenti d’alga — era destinato a una dieta liquida, o quasi. In definitiva, concluse, non era altro che una creatura marina di passaggio, emersa a prendere una boccata d’aria; e adesso, probabilmente, stava già terrorizzando le navi nelle Isole del Sud. Ma chi mai gli aveva messo al collo quella catena?