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Attraversarono una zona che sembrava il crocevia delle grotte: tutt'intorno gli indigeni scendevano e salivano a velocità fulminea sui loro ascensori invisibili; erano uno spettacolo piacevole, con quegli abiti dai colori vivaci che svolazzavano. E l'aria era piena di musica; dapprima pensò che fosse una specie di sistema di comunicazione pubblico, ma poi si accorse che era la gente a cantare; sotto voce, mentre andava da un luogo all'altro, nella galleria e fuori, con armonie bellissime; tutti canterellavano e trillavano.

Poi, quando si avvicinarono a una parete, vide qualcosa che lo sbalordì a tal punto di fargli dimenticare l'esperienza di venir lanciato in alto per un centinaio di metri, come un seme: rimase immobile, stordito dallo sbalordimento, lasciandosi sospingere e guidare qua e là, completamente privo di punti di riferimento.

Due degli uomini che lo incrociarono nel crocevia erano incinti. Non c'era possibilità di errore.

Lanciò un'occhiata di traverso al suo sorridente compagno… il viso forte, le braccia muscolose, le gambe robuste… era vero che avevano il mento molto liscio e i… ehm, i muscoli pettorali molto prominenti. L'areola era considerevolmente più grande di quella di un uomo… d'altronde, perché no? Anche gli occhi erano considerevolmente diversi. Dunque… vediamo. Se “lui” era una donna allora erano tutte donne. E allora, dove erano gli uomini?

Ricordò come lei… lui… insomma, come quella creatura l'aveva sollevato, la prima volta, tra le braccia, come un sacco di patate. Bene, se le donne erano capaci di far questo… che cosa avrebbero potuto fare gli uomini?

Cominciò a immaginare dei giganti… autentici colossi alti tre o quattro metri.

Poi immaginò alcuni minuscoli fuchi incatenati in una… una stazione di servizio, nei sotterranei…

E poi cominciò a preoccuparsi per la propria sorte.

«Dove mi stai portando?» domandò.

La sua guida annuì e sorrise e lo prese per il braccio spingendolo in avanti.

Giunsero in una stanza.

La porta si aprì… o piuttosto si dilatò; era una porta ovale, e si divise in mezzo e si aprì con uno scatto quando si avvicinarono e si rinchiuse di scatto, entusiasticamente, dietro di loro.

Si fermò e si appoggiò alla porta. Poteva farlo. La porta sembrava abbastanza robusta da poter reggere dieci uomini come lui, e non aveva neppure una maniglia.

Alzò lo sguardo.

E tutti lo guardarono.

Herb Railes va a trovare Smitty. I bambini dormono. Ha un baby-sitter elettronico grande come una radiolina tascabile. Bussa, e Smitty lo fa entrare.

«Ciao.»

«Ciao.»

Si dirige verso la credenza della zona pranzo del soggiorno di Smitty, depone il baby-sitter e inserisce la spina nella presa. «Che cosa stai facendo?»

Smitty solleva il piccino che aveva deposto sul divano quando era andato ad aprire la porta. Se lo carica sulla spalla, dove il piccino si aggrappa come un bavero.

«Oh» dice «sto solo badando alla bottega fino a che ritorna la padrona.»

«All'inferno la padrona» dice Herb.

«A casa sua, sei tu, il padrone?»

«Stai scherzando» dice Herb «ma se per caso era veramente una domanda, ti darò una risposta chiara.»

«E allora dammi una risposta chiara.»

«Tra la gente come noi, in casa non ci sono più padroni.»

«Già, credo che la situazione ci stia sfuggendo dalle mani.»

«Non è questo che intendevo dire, testa di legno.»

«E allora che cosa intendevi dire, zuccone?» chiede Smitty.

«È una specie di squadra, ecco cosa volevo dire. Continuano a blaterare perché le donne si impadroniscono di tutto. Non si impadroniscono di niente. Si stanno solo associando.»

«Un pensiero interessante. Sei un bravo, bravo bambino» dice Smitty, in tono fatuo e cantilenante.

«Che cosa sono?»

«Lo dico al piccolo, stupido bastardo. Ha appena fatto un ruttino.»

«Fammelo vedere. Sono passati anni da quando ho preso in braccio un bambino così piccolo» dice il padre di Karen, che ha solo tre anni. Prende il piccino dalle mani di Smith e lo tiene un po' distante da sé. «Dedé dedé dedé.» E sporge la lingua ad ogni “d”. «Dedé dedé.»

Il piccino spalanca gli occhi e, poiché è sonetto per le ascelle, ingobbisce le spalle fino a che il mento umido affonda nel bavaglino. «Dedé dedé.» Gli occhi del bambino sembrano diventare improvvisamente a forma di mandorla, e la sua bocca ha un ampio sorriso sdentato, con una fossetta sulla guancia sinistra, e si sente un gorgogliare felice e aspirato in fondo alla sua gola. «Dedé dedé dedé, ehi, sorride» dice Herb.

Smith gira attorno a Herb Railes per vedere bene. «Accidenti» dice, impressionato. Avvicina la faccia a quella di Herb. «Dedé dedé.»

«Devi cacciar fuori la lingua, in modo che lui la veda muoversi» dice Herb. «Dedé dedé.»

«Dedé dedé dedé.»

«Dedé dedé.» Il piccino smette di sorridere e guarda prima l'uno poi l'altro. «Così lo confondi.»

«E allora stai zitto» dice il padre del piccino. «Dedé dedé dedé.» Questo diverte il bambino, che gracchia e si fa venire il singhiozzo.

«Scheiss» dice Smith. «Vieni in cucina che gli prendo l'acqua.»

Vanno in cucina, Herb con il bambino in braccio, e Smith tira fuori una bottiglia da cento grammi dal frigorifero e la mette in un riscaldatore elettrico. Prende il bimbo dalle mani di Herb e se lo riappende alla spalla. Il bambino singhiozza violentemente. Lui gli dà qualche pacca sulla schiena. «Accidenti, avevo promesso a Tillie che avrei messo in ordine io, qui dentro.»

«Farò il boy-scout. Tu hai le mani occupate.» Herb toglie i piatti dal piano del banco, li raschia sulla pattumiera, li ammonticchia nel lavello. Apre l'acqua calda. È tutto molto familiare, per lui, perché quel lavello e il suo lavello e i lavelli di tutte le case a destra e a sinistra e avanti e indietro sono tutti dello stesso tipo. Prende il barattolo del detergente liquido e lo guarda sporgendo le labbra. «Noi non lo adoperiamo più.»

«Perché?»

«Rovina le mani. Adesso prendiamo il Lano-Love. Costa un po' di più, ma» dice, e finisce la frase con quel “ma”.

«“Due mani meravigliose per quattro soldi in più”» dice Smith, citando un carosello televisivo.

«Non è solo pubblicità è proprio vero.»

Herb apre completamente l'acqua calda, la tempera con un po' d'acqua fredda, solleva il doccino e comincia a sciacquare uno per uno i piatti.

Erano quattro, oltre a quello che l'aveva condotto lì. Due indossavano abiti identici… una specie di fascia ventrale d'un verde vivo e, sui fianchi, il paniere di una gonna a paniere. Ma senza la gonna. Quello più alto, che stava di fronte a Charlie, indossava una specie di accappatoio rovesciato come quello del compagno di Charlie, ma di un arancione acceso. Il quarto indossava qualcosa che somigliava alla parte inferiore d'un costume da bagno maschile del 1890, in azzurro elettrico.

Ogni volta che lo sguardo sbalordito di Charlie si posava su uno di loro, quello sorrideva. Erano tutti distesi, appoggiati, sdraiati su basse panchine e su certi strani sgabelli che sembravano cresciuti dal pavimento. L'essere più alto era seduto a una specie di scrivania che sembrava che gli (o le) fosse stata costruita avanti e attorno. I loro caldi sorrisi amichevoli, il loro atteggiamento rilassato erano incoraggianti, eppure lui aveva la fuggevole sensazione che quella cordialità fosse analoga ai rituali saluti del mondo affaristico moderno, che non significavano niente per un estraneo, ma che cominciavano sempre con: «Se sieda. Si tolga le scarpe, se vuole… qui siamo tra amici. Prenda un sigaro e non mi chiami “signore”».