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— Non mi interessano. E le “carrette”?

— Oh, mi spiace — disse affabilmente il funzionario. — Avete problemi psicologici?

— Sì, detesto le uniformi.

— Be’, vediamo un poco... C’è la Space Angel che ha bisogno di un quartiermastro. Ieri il comandante ha esaminato per tutto il giorno gli uomini che gli abbiamo mandato, ma li ha scartati tutti. D’accordo che li avevano espulsi da tutte le compagnie, ma quello è un tipo molto esigente. Però nessuno degli aspiranti aveva le vostre qualifiche. Secondo me, è il lavoro che fa per voi.

— Pare anche a me. Quando posso vedere il capitano?

— Fra un’ora circa. Vi avvertirò.

— Bene. Mi troverete al caffè. — Torwald si caricò la sacca in spalla e andò a depositarla in un armadietto prima di salire al Livello Sei dove c’era il caffè più grande dello spazioporto, frequentato abitualmente dagli spaziali delle svariate compagnie. Torwald andò al blocco di servizio più vicino al suo tavolo e spinse il pulsante contrassegnato CAFFÈ NERO-DOLCIFICANTE. Subito salì sul ripiano una tazza di plastica che lui portò al tavolo, aguzzando le orecchie per ascoltare i discorsi degli altri avventori. La vita gli aveva insegnato presto a parlare poco e ad ascoltare molto. Sebbene fosse in grado di sintonizzarsi su parecchie conversazioni contemporaneamente, non scoprì niente d’interessante. Le solite chiacchiere di tutti gli astroporti: qualcuno aveva scoperto degli alieni intelligenti; qualcun altro aveva completato regolarmente i giri ogni sei mesi terrestri... tutte cose che Torwald aveva già sentito un sacco di volte. La Satsuma aveva in cantiere un progetto di fusione con la Linea Nebula. Be’, questo poteva essere interessante. Fusioni di quella portata erano illegali. Torwald incamerò l’informazione.

A un tratto si accorse che qualcuno gli stava vicino.

— Oh, scusatemi, signore.

Torwald alzò gli occhi e vide un ragazzo sui diciassette anni coi capelli biondi lisci e una faccia smunta da denutrito. Indossava una vecchia tuta militare troppo piccola per lui.

— Avanti, siediti — gli disse Torwald indicando la sedia al capo opposto del tavolo.

— Grazie — rispose il ragazzo, mettendosi a sedere. — Su quale nave siete imbarcato? Aveva un sorriso timido e gli ricordava così tanto un cucciolo che a Torwald veniva voglia di dargli una grattatina sulla testa.

— Non ho ancora trovato un ingaggio. Forse combinerò nel pomeriggio — disse, e tornò a occuparsi del suo caffè. Il ragazzo lo fissava ammirato, cosa che metteva sempre in imbarazzo Torwald.

— Volete dire che potete scegliere la nave che vi pare?

— Di solito sì — borbottò Torwald. — Sono poche le mansioni di bordo che non sono in grado di svolgere, a parte quelle di tecnico e ufficiale di plancia. Quando in `un porto ci sono tre navi, sono sicuro di trovare un posto che fa per me.

Se con questo Torwald sperava di avere concluso la conversazione, si sbagliava.

— Ho cercato di trovarne una che mi imbarcasse per un anno — disse con aria delusa il ragazzo.

— E allora?

— Manco dì esperienza. Prendono solo gli esperti. Ma come faccio a diventarlo se non lavoro a bordo di una nave?

— È facile — gli disse Torwald. — Arruolati nella Flotta. È così che ho imparato a diventare spaziale. LA potrai farti tutta l’esperienza che vuoi, e al congedo ti daranno il braccialetto di spaziale — concluse mostrandogli il suo.

— Non so quante volte ho provato — ribatté il ragazzo, — ma al giorno d’oggi richiedono una laurea, e inoltre io sono astigmatico dall’occhio sinistro. Non vogliono gente con difetti fisici.

— Mi dispiace, figliolo. Quando mi arruolarono, contavano le braccia e le gambe, e se il totale assommava a quattro ti arruolavano. Se poi uno sapeva leggere, meglio. Ma allora c’era la guerra e non erano tanto schizzinosi.

— Già, ma adesso che la guerra è finita ci sono pochi posti e troppi spaziali. La Flotta ha ridotto gli arruolamenti ed esige una laurea. Non c’è posto per me — aggiunse con una smorfia di rammarico.

— Cosa fai? — gli chiese Torwald per cambiare discorso. — Intendo dire quando non cerchi di arruolarti. Cosa fanno i tuoi genitori?

— Non li ho — rispose il ragazzo non senza fierezza. — Sono solo. Fino ai sedici anni ho vissuto in un orfanotrofio, e poi mi hanno buttato fuori. C’erano troppi orfani, dopo la guerra.

— E allora come te la sei cavata?

Il ragazzo alzò le spalle. — Ho fatto un po’ di tutto, e lo Stato mi passa un sussidio. Almeno non mi lasciano morire di fame.

— Spaziale di Prima Classe Torwald Raffen — disse in quella la voce dell’altoparlante. — A rapporto dal capitano del mercantile indipendente Space Angel per un colloquio.

— E per me — disse Torwald alzandosi. — Mi ha fatto piacere parlare con te, figliolo. Auguri. — Si allontanò senza voltarsi. Non voleva fare il duro, anzi, in cuor suo provava compassione per quel ragazzo, solo che erano talmente tanti i giovani speranzosi di diventare spaziali che faceva male al cuore guardarli. Non si poteva fare niente per loro e, al confronto, Torwald si sentiva disgustosamente fortunato.

Si avviò verso la nave attraversando i punti di attracco dello spazioporto. Anche se avesse tardato un poco a presentarsi, il capitano non se la sarebbe presa. Era molto scarso il personale qualificato disposto a prestare servizio su una vecchia carretta. Strada facendo passò davanti alle enormi navi della Satsuma. Indubbiamente erano bellissime, ma lui ci si sarebbe trovato male. Le Classe Uno erano state i cavalli da tiro della compagnia per parecchi anni, e ora correva voce che sarebbero state sostituite da un altro tipo di vascello, denominato Supernova, costruito secondo un progetto d’avanguardia. Ma ufficialmente la Satsuma non aveva lasciato trapelare niente di quel progetto. Torwald passò poi davanti alla Starvoyager, addetta al trasporto emigranti, pronta a caricare migliaia di persone desiderose di lasciare la Terra sovrappopolata per emigrare su qualche mondo che offrisse la possibilità di una vita migliore.

Le carrette, le navette e le navi che percorrevano linee brevi erano molto diverse; limitate nello spazio, avevano equipaggi di una ventina di persone al massimo. Logore e malconce, erano quasi sempre vecchi scarti venduti all’ asta quando una compagnia di navigazione metteva in servizio nuovi modelli di navi. Ma Torwald le trovava più belle di qualsiasi modernissima nave spaziale di lusso.

La Space Angel era l’ultima della fila, e proprio la sua posizione rivelò a Torwald quali fossero le sue fortune. Gli attracchi più lontani, quasi all’estremità del porto, erano i meno costosi. La nave era una vera anticaglia. Le fiancate, originariamente lucide e levigate, erano adesso opache e segnate dallo sfregamento del pulviscolo spaziale, dopo anni e anni di servizio. Dal nome Torwald aveva appreso che quella nave un tempo era appartenuta alla vecchia Angel Line, una compagnia composta da un proprietario, una manciata di navi e da equipaggi costituiti da uomini rotti a tutte le avventure. Ai loro tempi erano state belle navi: la Star Angel, l’Angel of Sirius, la Guardian Angel, l’Angel of the Nebulae. Probabilmente la Space Angel era l’ultima ancora in servizio. Torwald salì il barcarizzo, e arrivato in cima fu accolto da un ometto dotato di un gran paio di baffi.

— Chiedo il permesso di salire a bordo — disse Torwald, secondo l’uso.

— Permesso accordato — rispose l’ometto. Gli spaziali erano dei tipi molto formali.