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L’interno era così domestico che a Torwald venne voglia di togliersi gli stivali. Ponte, paratie e soffitti erano rigati dalle piastre magnetiche applicate alle suole degli stivali quando ancora non era stato inventato il campo gravitazionale.

Torwald bussò al portello della cabina del capitano e qualcuno da dentro grugnì: — Avanti! Il capitano della Space Angel era una donna dall’aspetto coriaceo, sulla cinquantina, con una faccia dura e un sigaro Sirius V che le sporgeva dai denti. Portava uno di quei ridicoli berretti a visiera di stoffa, prediletti da molti comandanti. Gli tese la mano e Torwald vi lasciò cadere il bracciale che lei inserì nella consolle. — Sapete usare un coltello a raggio corto? — chiese di punto in bianco.

— Sì.

— Dove l’avete imparato? — Pareva sorpresa. — Ho rifiutato una mezza dozzina di aspiranti, ieri, perché non ne erano capaci... Lavoravate come minatore sugli asteroidi?

— No. Sono stato prigioniero di guerra su Signet. Lo adoperavamo nelle risse.

— Si fidavano a lasciare ai prigionieri gli utensili a laser? — chiese incredula la comandante.

— Ci avevano messo dei collari esplosivi e usavano il metodo di sorveglianza a distanza. Non era possibile fargliela.

— Bene, io ho bisogno di un quartiermastro, che sappia anche servirsi di un’arma a raggio corto e sia in grado di tenere a bada una squadra. Credete di essere all’altezza?

— Certamente.

— D’accordo. Spaziale Raffen, vi assumo. Così mi manca solo un uomo.

— Per quale incarico?

— Mozzo. Ci servono ancora su questi vecchi trabiccoli. L’ultimo era diventato troppo vecchio per quel lavoro e ci ha lasciato su Altair Tre. Era un bravo ragazzo.

— Io ho proprio quello che fa per voi. L’ho incontrato poco fa al terminal. Non credo di aver mai visto uno tanto patito per la navigazione spaziale. Ma anch’io ero così una quindicina di anni fa.

— Portatelo a bordo.

— Ha bisogno di un corredo.

La donna allungò la mano ed estrasse dalla consolle una sottile piastrina di metallo e gliela porse.

— Comprategli quello che gli occorre — disse. — Detrarremo le spese dalla sua paga. Portatemelo fra un paio d’ore. Salperemo a mezzogiorno in punto.

Torwald salutò e se ne andò con la piastrina di credito in tasca, convinto di essersi messo al servizio di un ottimo comandante. Almeno sotto il punto di vista umano.

Kelly, seduto al caffè, rimuginava tristi pensieri sulla tazza ormai semivuota e fredda. Pensava allo spaziale con cui aveva parlato; un uomo alto e snello, con qualche filo grigio nei capelli, che si muoveva con la disinvolta scioltezza di chi ha passato la vita ad adattarsi alle diverse gravità che gli spaziali incontrano durante la loro carriera. Indossava la tuta grigia e gli stivali consunti di chi la lavorato sulle navi indipendenti. Ed era proprio questa la carriera che sarebbe piaciuta a lui: trovare un ingaggio, trasportare merce verso qualsiasi destinazione, e poi aspettare di firmare un altro contratto. Le carrette non avevano una sede e non seguivano turni e linee fissi. Kelly si sarebbe accontentato anche di un ingaggio su un postale Terra-Luna, pur di volare nello spazio.

A un tratto si sentì battere sulla spalla, e alzò gli occhi. Era lo spaziale di prima.

— Vieni, figliolo. Siamo arruolati tutt’e due sulla Space Angel.

A un isolato dallo spazioporto c’erano dozzine di negozi che rifornivano gli spaziali. La fine della guerra aveva gettato sul mercato milioni di tonnellate di residuati, e magazzini grandi e piccoli erano spuntati come funghi da un giorno all’altro. Erano i negozi ideali in cui uno spaziale poteva rifornirsi senza spendere troppo.

Torwald entrò in quello che, a occhio, gli dava più affidamento. — Prima qualcosa per contenere il resto — disse, e il proprietario portò una sacca spaziale grigio scuro, lucida, di quelle che la Flotta forniva verso la fine della Guerra. La sacca di Torwald era di un blu più tradizionale.

E adesso qualcosa per proteggersi continuò Torwald fregandosi le mani. Si divertiva, e Kelly era addirittura affascinato nel vedere ammucchiare tutta 1’ attrezzatura che gli era necessaria per il suo nuovo lavoro. Si recarono nel reparto dove gli indumenti protettivi pendevano in lunghe file, e andavano dalle tute antimissili personali ai completi di piastre articolate di fibra ceramica indurita. Torwald scelse una tuta di stoffa corazzata.

— Serve a fermare i proiettili? — chiese Kelly.

— In parte sì, ma andrai in posti dove zanne, artigli, spine e aculei sono più pericolosi dei proiettili. La stoffa corazzata serve soprattutto per questo. Hai un coltello? — Kelly ne trasse uno di tasca, un tipo da poco prezzo con la lama a scatto. — Buttalo via. Serve solo a pungere. Te ne trovo uno migliore. — Esaminò l’assortimento esposto in una vetrina e infine scelse un coltello a lama pesante dotato anche di numerosi altri utensili e chiuso in una fondina. — Con questo puoi fare tutto — disse Torwald al ragazzo — e, se proprio vuoi, potrai anche infilzare qualcuno.

Poi scelse indumenti pesanti, un cronocalcolatore da polso, guanti da lavoro e da ultimo portò Kelly nel retro, dove c’erano mucchi di scarpe e stivali fra i quali frugarono a lungo. Intanto, Torwald impartiva a Kelly una lezione sulle virtù dei buoni stivali.

— Forse non ci crederai, ma gli stivali sono il capo più importante dell’abbigliamento di uno spaziale. Questo perché non si può mai sapere dove si metteranno i piedi, su quale terreno, in che clima. E poi non devi dimenticare che uno spaziale ha ben poco a che fare con lo spazio, allo stesso modo che un marinaio ha ben poco a che fare con l’acqua. Sia in mare sia nello spazio si vive a bordo, e quando si scende a terra gli stivali sono indispensabili. Ah, trovato! — esclamò estraendone dal mucchio un palo. — Autentici stivali spaziali di prima della guerra!

— Come fate a sapere che sono di prima della guerra?

Torwald gli mostrò le suole. — Vedi queste file di forellini? Qui si avvitavano le piastre magnetiche. Non le si usava da cinquant’anni, ma la Flotta esigeva che le suole avessero gli appositi fori per montarle, casomai l’apparato gravitazionale si guastasse. Quando poi scoppiò la guerra abolirono questa norma, insieme a molte altre, per ridurrei costi. Questi stivali ti dureranno tutta la vita.

Prima di uscire, Kelly si rimirò in uno specchio, felice di vedersi indosso tuta e stivali spaziali, come aveva sempre sognato. La tuta gli stava larga perché era troppo magro. In realtà, più che uno spaziale, sembrava un ragazzino mascherato da spaziale.

— È un po’ grande — mormorò imbarazzato notando che Torwald lo guardava sorridendo.

— La riempirai con quello che mangerai a bordo. La comandante non è tipo da tenere un cuoco che non sappia il fatto suo.

Tornarono a piedi al terminal, dove Torwald ritirò la sua sacca. Presero una navetta per raggiungere la nave. Durante il percorso Kelly continuò a guardarsi attorno ammirato. Fino a quel giorno non gli era mai riuscito di entrare su un campo di lancio, e stentava ancora a crederci. Quando la navetta si fermò sotto la Space Angel guardò con tenerezza le fiancate scrostate e gli ammortizzatori schiacciati dal contatto col terreno di chissà quanti mondi. Dalla punta del suo muso tozzo all’ estremità dei congegni di atterraggio gli sembrò più bella del più lussuoso palazzo che mai avesse sognato.

Torwald lo precedette sul barcarizzo e poi si ripeté la formalità del permesso di salire a bordo, questa volta per Kelly, in quanto Torwald, ormai membro dell’equipaggio, non era tenuto a farlo. Il barcarizzo terminava all’inizio di una rampa curva che saliva inarcandosi fino alla parete opposta. Torwald la salì con la disinvoltura dell’abitudine, ma Kelly inciampò e cadde bocconi per effetto del campo gravitazionale della nave. La “parete” verso cui si dirigevano era diventata il ponte, e la nave, che stava eretta sugli ammortizzatori, gli sembrò improvvisamente orizzontale. Si voltò e scoprì che la pavimentazione di cemento del campo adesso torreggiava su di lui e l’uomo fermo sulla sommità del barcarizzo se ne stava steso per traverso sfidando la gravità. In preda alle vertigini, Kelly tornò a voltarsi, si alzò e seguì Torwald.