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— Sedetevi — disse Candler.

— La risposta è sempre no!

— Sedetevi ugualmente.

Sedette, tirò fuori di tasca un’altra sigaretta e l’accese.

— Non avrei neppure voluto accennarvi — disse — ma ora devo farlo. Ora che avete parlato così. Non sapevo che vi crucciaste tanto per la vostra amnesia. Credevo che fosse acqua passata.

«Quando il dottor Randolph mi ha domandato qual era il nostro miglior reporter per affidargli quel servizio, io gli ho fatto il vostro nome. Gli ho parlato anche del vostro passato. Lui ricordava di avervi conosciuto, per caso. Ma non sapeva affatto dell’amnesia.

— È per questo che avete proposto me?

— Aspettate, Napo, lasciatemi spiegare. Ha detto che durante il vostro ricovero nell’ospedale psichiatrico vi avrebbe potuto sottoporre a un’applicazione di un nuovo tipo di elettroshock, in grado forse di rendervi la memoria. Ha assicurato che vale la pena di tentare.

— È sicuro della sua efficacia?

— No, ma ci sono buone probabilità; comunque non potrebbe farvi alcun male.

Lui schiacciò il mozzicone della sigaretta da cui aveva tirato non più di tre boccate e lanciò un’occhiataccia a Candler. Non c’era bisogno di parole, l’altro capì perfettamente che cosa volesse dire.

— Calmatevi, vecchio mio — disse il direttore — e non dimenticate che io ve ne ho parlato soltanto quando mi avete confessato che quel muro nella memoria è un tormento per voi. Non era un’arma segreta. Ve ne ho accennato solo per un senso di lealtà nei vostri confronti, e dopo che voi siete entrato in argomento.

— Lealtà!

Candler sì strinse nelle spalle. — Avete rifiutato, io mi sono dichiarato d’accordo. Allora ve la siete presa con me, mettendomi con le spalle al muro e costringendomi a dire qualcosa a cui avevo appena pensato. Dimentichiamo tutto. Come va quel caso di corruzione politica? Nessun indizio nuovo?

— Affiderete a qualcun altro il servizio nel manicomio?

— No. Voi eravate la persona adatta.

— Ma di che storia si tratta? Dev’essere davvero assurda per avervi fatto dubitare della sanità mentale di Randolph. È forse del parere che i pazienti dovrebbero mettersi al posto dei medici o qualcosa del genere? — Scoppiò a ridere, e riprese: — Naturalmente, non potete parlarmene. Davvero una splendida doppia esca! La curiosità… e la speranza di abbattere quel muro. Dunque, continuate. Se acconsentissi, per quanto tempo dovrei restare là dentro, e a che condizioni? Che probabilità avrei di uscirne, poi? E come farei ad entrare?

— Vine, ora non sono affatto sicuro di volervi affidare l’incarico. Lasciamo perdere tutto — disse Candler.

— Neanche per sogno. Comunque prima dovete rispondere alle mie domande.

— Come volete. Dovreste farvi ricoverare sotto falso nome, perché non rimanga alcuna traccia nel caso la faccenda non funzionasse. Se tutto andasse bene, potrete poi raccontare tutta la verità, compresa la complicità di Randolph nel farvi entrare e uscire dall’ospedale. Ormai il segreto sarebbe di dominio pubblico. La cosa potrebbe risolversi in pochi giorni. Comunque non restereste là più di due settimane.

— E quante persone, là dentro, oltre a Randolph, saprebbero chi sono io e perché mi trovo in quel posto?

— Nessuna. — Candler si protese sulla scrivania e allungò la mano sinistra, con quattro dita tese. — Quattro persone soltanto sarebbero al corrente della cosa — disse. Voi — e indicò il primo dito. — Io — e indicò il secondo. — Il dottor Randolph — toccò il terzo — e un cronista del nostro giornale — concluse abbassando l’ultimo.

— Non che abbia niente in contrario, ma perché ci vuole un altro reporter?

— Per fare da intermediario. In due modi. Prima vi accompagnerebbe da uno psichiatra, Randolph ve ne indicherà uno che potrete imbrogliare con discreta facilità, fingendo di essere vostro fratello, e lo pregherebbe di esaminarvi e rilasciarvi un certificato medico con la richiesta di internamento. Voi dovreste convincere lo specialista che vi ha dato di volta il cervello. Naturalmente ci vuole la dichiarazione di due medici per il ricovero. Ma Randolph firmerebbe la seconda. Il vostro sedicente fratello si rivolgerebbe poi a lui.

— E tutto questo sotto finto nome?

— Se preferite. Naturalmente, non c’è ragione perché sì debba usare questa precauzione.

— Ecco come la penso io. Naturalmente, niente pubblicità. Dire a tutti qui dentro che… Tranne a mio… ehm, in tal caso non potremmo sfoggiare un fratello perché Charlie Doerr del reparto tiratura, è mio primo cugino, il mio parente più stretto tuttora vivente. Potrebbe andare, no?

— Certo. E dovrebbe fare poi da intermediario. Venire a trovarvi in ospedale e portarne fuori tutto quello che potreste avere da mandarmi.

— E se dopo un paio di settimane non avessi trovato niente, chi mi farebbe uscire?

— Informerei Randolph. Lui vi esaminerebbe di nuovo, vi dichiarerebbe guarito e voi sareste libero. Tornerete qui, raccontando di esservi preso una vacanza. Ecco tutto.

— E che tipo di malattia mentale dovrei fingere di avere?

Gli sembrò che Candler mostrasse un certo imbarazzo. Finalmente si decise a parlare: — Be’, quel soprannome di Napo, non potrebbe sembrare naturale? Insomma, la paranoia, a detta di Randolph, è una psicosi caratterizzata dallo sviluppo di un delirio cronico sistematizzato e coerente, che si evolve lentamente, lasciando intatte le restanti funzioni psichiche. Il paranoico potrebbe essere sanissimo sotto ogni altro aspetto.

Lui guardò Candler, le labbra contratte in un debole sorriso. — Intendete dire che dovrei credere di essere Napoleone?

L’altro fece un gesto vago. — Scegliete la mania che preferite. Ma quella non andrebbe bene? Tutti in ufficio vi canzonano, chiamandovi Napo. E… — concluse debolmente — e tutto il resto.

Poi Candler Io guardò, deciso. — Allora, accettate o no?

Lui si alzò. — Credo di sì. Ve lo farò sapere domattina, dopo averci dormito sopra. Ma esigo la massima discrezione. Viva?

Candler annuì.

— Mi prendo un pomeriggio di libertà — disse lui. — Me ne vado in biblioteca a leggermi qualcosa sulla paranoia. E stasera andrò a parlare con Charlie Doerr. Va bene?

— Bene. E grazie.

Lui rise e si protese sopra la scrivania. — Vi confiderò un piccolo segreto — disse sottovoce — ora che le cose sono arrivate a questo punto. Ma non ditelo a nessuno. Io sono davvero Napoleone!

2

Prese giacca e cappello e uscì nel sole caldo, lasciando dietro di sé l’aria condizionata. Abbandonò il tranquillo manicomio della redazione, per entrare in quello ancora più tranquillo delle strade cittadine in un soffocante pomeriggio di giugno.

Spinse il panama all’indietro, verso la nuca e si passò il fazzoletto sulla fronte. Non sarebbe certo andato in biblioteca per farsi una cultura sulla paranoia; quella era una scusa per poter trascorrere in pace il pomeriggio. Aveva già letto tutto quanto c’era da leggere su quella malattia mentale, e su argomenti affini, più di due anni prima. Ormai era un esperto, in materia. Avrebbe potuto menare per il naso qualsiasi psichiatra, facendosi credere perfettamente sano… oppure no.

Si diresse verso il parco e sedette su una panchina all’ombra. Posò il cappello accanto a sé e si asciugò di nuovo la fronte.

Poi fissò l’erba di un verde lucente, i piccioni con la loro buffa andatura, uno scoiattolo rosso, che scendeva lungo il tronco di un albero e che, vedendolo, fece dietrofront, arrampicandosi velocissimo.

Ripensò alla barriera che l’amnesia aveva innalzato nella sua mente tre anni prima. Al muro che non era stato affatto un muro. La frase lo imbarazzava: affatto un muro. I piccioni sull’erba, ahimè… affatto un muro.