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Gli impacciati, incerti esperimenti di Galvani, avevano appena preannunciato il mistero spiegabilissimo di quella luce che se ne stava lassù, sul soffitto. E, cosa infinitamente strana, solo una parte della sua intelligenza la trovava misteriosa mentre un altro settore la considerava con la massima naturalezza e ne capiva il funzionamento nelle sue linee generali.

La luce elettrica, aveva pensato, era stata inventata da Thomas Alva Edison, verso il… che buffo! Stava per dire verso il 1900, mentre era soltanto il 1796!

Poi l’orribile verità gli si era presentata alla mente, e lui aveva cercato — dolorosamente e invano — di rizzarsi a sedere sul letto. Era stato proprio nel 1900, glielo diceva la sua memoria, ed Edison era morto nel 1931… E un uomo chiamato Napoleone Bonaparte era morto centodieci anni prima, nel 1821.

Allora si era sentito impazzire.

Pazzo o sano che fosse, soltanto l’impossibilità di parlare lo aveva salvato dal ricovero in manicomio; gli aveva dato il tempo di riflettere, di rendersi conto che la sua sola speranza di salvezza stava nel dichiararsi vittima di un’amnesia, nel fingere di non ricordare nulla della vita prima dell’incidente. Non si manda nessuno in manicomio per un’amnesia. Ti dicono chi sei, e ti lasciano tornare a quella che, secondo loro, era la tua esistenza. Ti permettono di raccogliere i fili spezzati e di tesserli di nuovo, mentre cerchi di ricordare.

Tutto questo era successo tre anni prima. Domani sarebbe andato nello studio di uno psichiatra… per dirgli che lui era Napoleone!

3

Il sole si era abbassato parecchio. Un aereo che aveva l’aria di un grosso uccello passò ronzando nel cielo. Guardò in su e cominciò a ridere piano, tra sé… Non la risata sguaiata della pazzia. Era una risata autentica, genuina, perché sgorgava dall’immagine assurda di Napoleone Bonaparte che viaggiava in un aereo come quello, dall’irresistibile incongruenza di quell’idea.

Gli venne in mente, allora, che lui non era mai stato in aereo, per lo meno non se ne ricordava. Forse ci era stato George Vine; durante i suoi ventisette anni di vita, George Vine doveva pur aver volato. Ma questo significava forse che “lui” era stato in aereo? Questa domanda si perdeva in un interrogativo più vasto.

Si alzò e riprese a camminare. Erano quasi le cinque: presto Charlie Doerr avrebbe lasciato il giornale e sarebbe tornato a casa per cenare.

Forse era meglio telefonare a Charlie e assicurarsi che fosse in casa davvero quella sera.

Andò al bar più vicino e formò il numero. Trovò Charlie per un pelo. — Qui parla George — disse. — Sei a casa, stasera?

— Certo, George. Ero stato invitato per un poker, ma ho rimandato quando ho sentito che venivi tu.

Come facevi a sapere… Oh, te l’ha detto Candler?

— Sì. Non sapevo se avresti telefonato, così non ho avvisato Marge. Ma che ne dici di cenare insieme fuori? Per lei va senz’altro bene. La chiamo ora e glielo dico, se puoi.

— No, grazie, Charlie. Sono già invitato. E, per quanto riguarda il poker, non rinunciare. Sarò da te alle sette. Mica dovremo parlare tutta la sera: basterà un’oretta. Comunque non usciresti prima delle otto.

— Non preoccuparti. Non ho alcuna voglia di andarci e tu non vieni a trovarmi da un bel pezzo. Alle sette, allora.

Uscì dalla cabina telefonica, si avvicinò al bancone, e ordinò una birra. Chissà perché aveva rifiutato l’invito a cena. Forse nel suo subcosciente voleva rimandare di un paio d’ore quel colloquio penoso. Eppure voleva bene a Charlie e Marge.

Sorseggiò lentamente la birra per farla durare a lungo. Doveva mantenersi lucido quella sera, perfettamente lucido. Aveva ancora il tempo di cambiare idea, si era tenuto aperta una via d’uscita, per quanto angusta. Poteva ancora andare da Candler il mattino seguente e dirgli che non se la sentiva.

Sbirciando sopra l’orlo del bicchiere si guardò riflesso nello specchio del bar. Piccolo, capelli color sabbia, naso lentigginoso, la corporatura bassa e tarchiata corrispondeva, ma il resto! Neppure la più lontana rassomiglianza.

Mandò giù lentamente una seconda birra, tirando le cinque e mezzo.

Uscì e cominciò a camminare, questa volta verso la città. Passò davanti al Blade e diede un’occhiata su, al terzo piano, alla finestra dove si trovava quando Candler lo aveva mandato a chiamare. Chissà se sarebbe tornato ancora a quella finestra, per contemplare il mondo in un pomeriggio di sole?

Forse no.

Pensò a Clare. Gli andava di vederla quella sera?

Ecco, per essere sincero, proprio no. Ma se fosse scomparso per un paio di settimane senza neanche salutarla, avrebbe potuto farci una croce sopra. Lei non avrebbe più voluto saperne.

Meglio avvertirla.

Si fermò ad un altro bar e le telefonò a casa. — Sono George. Senti, domani vado fuori città, per lavoro. Non so quanto resterò assente. Può essere questione di giorni o di settimane. Potremmo vederci stasera?

— Ma certo, George. A che ora?

— Subito dopo le nove, ti va? Prima devo passare da Charlie per questioni di lavoro. Non credo che riuscirò a liberarmi prima delle nove.

— D’accordo George. Vieni quando vuoi.

Si fermò a una bancarella di hamburger anche se non aveva appetito, e riuscì a mandar giù un panino imbottito e un pezzo di pasticcio di carne. Erano ormai le sei e un quarto, e se fosse andato a piedi sarebbe arrivato a casa di Charlie proprio all’ora giusta. S’incamminò.

Charlie gli venne Incontro sulla soglia. Posandosi un dito sulle labbra, accennò con la testa in direzione della cucina, dove Marge stava rigovernando — Non le ho detto niente, George — bisbigliò. — Si metterebbe in agitazione.

Lui avrebbe voluto domandargli perché Marge dovesse preoccuparsi tanto, poi pensò che era meglio star zitto. Forse aveva paura della risposta. Se Marge si preoccupava per lui, era brutto segno. Eppure gli sembrava di essersi comportato bene in quei tre anni.

Comunque non ebbe il tempo di fare domande, perché Charlie lo introdusse subito nel soggiorno, comunicante con la cucina, senza tacere un attimo. — Che buona idea quella di venire a giocare a scacchi, George! Peccato però che Marge debba uscire, stasera; c’è un film che le interessa in un cinema qui vicino. Io sarei andato a fare quella partita tanto per ammazzare il tempo ma non ne avevo molta voglia.

Prese scacchi e scacchiera da un armadietto e sistemò il tutto su un tavolino.

Marge entrò con due grossi bicchieri pieni di birra fresca sopra un vassoio, che posò accanto alla scacchiera. — Ciao George — disse. — Allora, te ne vai per un paio di settimane?

Lui annuì. — Ma non so dove. Candler, il direttore, mi ha chiesto se ero libero per un servizio fuori città e io ho acconsentito volentieri. Mi dirà i particolari domani.

Charlie gli tese i pugni chiusi, un pezzo in ciascuna mano, e lui scelse la sinistra. Bianco. Disposero i pezzi sulla scacchiera: Re, Regine, pedoni.

Marge stava trafficando col cappello davanti allo specchio.

— George se te ne vai prima che io torni — disse — ti saluto adesso. Auguri.

— Grazie, Marge. Ciao.

Fecero qualche mossa prima che la donna, finalmente pronta, venisse a salutare il marito con un bacio.

Per un attimo i loro occhi si incrociarono e lui capì che Marge era preoccupata. La cosa lo spaventò un poco.

Quando la porta si richiuse, lui disse: — Lasciamo perdere il gioco, Charlie. Andiamo al sodo, perché ho un appuntamento con Clare alle nove. Non so quanto starò lontano, dunque devo salutarla.

Charlie lo guardò. — Tu e Clare fate sul serio? — domandò.

— Non so.

Charlie afferrò il suo bicchiere e mandò giù un sorso Poi parlò con voce chiara e precisa. D’accordo — disse — andiamo al sodo. Domattina alle undici abbiamo appuntamento con un certo Irving, dottor J.E. Irving, in Appleton Block. È uno psichiatra, consigliato dal dottor Randolph. Gli ho telefonato oggi pomeriggio, dopo aver parlato con Candler, che a sua volta aveva già chiamato Randolph. Ecco che cosa ho raccontato: prima di tutto ho dato il mio nome, poi ho spiegato che ho un cugino che da qualche tempo a questa parte si comporta in modo strano e che avrei voluto fargli esaminare. Non ho detto, però, il nome del cugino e neanche quali siano le sue stranezze. Ho evitato di rispondere alle domande dicendo che preferivo fosse lui a giudicare, senza pregiudizi. L’ho informato che ti avevo convinto io a rivolgerti a uno psichiatra. Io conoscevo soltanto Randolph che in genere non fa visite private e che mi aveva indirizzato a lui. Gli ho anche detto che sono il tuo parente più stretto. Se riuscirai a convincere Irving di essere davvero pazzo e lui deciderà di farti ricoverare, io insisterò per sentire anche il parere di Randolph, che avevo già richiesto in principio. E questa volta lui acconsentirà.