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Io scendo qua». Si è alzato, Paul Chaland l'ha abbracciato a lungo e gli ha detto: «Addio, Cervo!». E ha singhiozzato spudoratamente.

* * *

Io e mio fratello non ce lo siamo mai detto, ma nella vita abbiamo avuto una grande fortuna: crescere con un padre intelligente.

Lui, invece, ha avuto una grande sfortuna: vivere gli anni più belli durante una tragedia stupida e inutile come la guerra.

Lo diceva spesso: «Vedete, la guerra è la logica più stupida inventata dall'umanità. Non risolve mai i problemi, perché la violenza genera solo altra violenza. Io mi auguro che le cose cambieranno, e che la guerra diventerà una soluzione impensabile, un tabù, come l'incesto».

Insomma, negli anni più belli per un uomo, quelli dai trenta ai quaranta, lui non ha potuto leggere i libri che desiderava, né ascoltare la musica che gli piaceva, né viaggiare, né dire quello che pensava. Ma ha subito l'oscuramento, il coprifuoco, la censura, la stupidità di un regime volgare e, soprattutto, la guerra: la più grande tragedia che possa capitare a una generazione.

Quando io e mio fratello eravamo piccoli, un'ora a colazione e un'ora a cena le passavamo con lui. Era un grande affabulatore, coltissimo, astronomo dilettante.

D'estate, poi, si cenava sul terrazzo in riva al mare, sotto una tenda verde che ci proteggeva dall'umidità. Non era ancora successo quello che è successo: l'inquinamento, le automobili, e quella tragedia che è stata la dittatura della televisione.

Non era mai noioso. Una volta ci ha raccontato una fiaba che mi ha molto colpito: «C'era una volta un viaggio in treno. All'inizio si canta tutti, si è amici di tutti e sai i nomi di tutti i passeggeri del tuo vagone e anche dei vagoni vicini; a ogni stazione ne salgono di nuovi e fuori il paesaggio è stupendo. Sembra sempre estate e ci sono montagne, e alberi, e prati. Il treno avanza lentamente e avresti voglia di scendere a ogni stazione dove vedi delle belle ragazze. Poi il treno comincia ad andare un po' più veloce e si ferma più raramente. E poi così veloce che vedi a stento il paesaggio che stai attraversando e non riesci più a ricordare i nomi delle stazioni. Molti passeggeri scendono e a salire, ormai, sono in pochi.

Il treno ad un tratto si ferma in aperta campagna. È il tramonto, ti volti in giro e vedi che sei solo in tutto il vagone. Alle tue spalle compare il conducente. E tutto vestito di nero e non gli si vede la faccia: „Signore! Deve scendere, il viaggio è finito!“. Tu guardi fuori dal finestrino e vedi che non c'è nulla. Solo buio».

E lui, in quelle serate, a parlare, e raccontare… soprattutto di stelle, di galassie, di Betelgeuse e di Antares, che era la stella più grande.

Aveva una tale voglia di essere felice che, nonostante le condizioni proibitive, ce l'ha fatta. E riuscito ad aggirare l'ostacolo. E ha quasi pianificato di innamorarsi della segretaria, una certa Flora. Occhi neri, capelli corvini, molto giovane, molto allegra ma, soprattutto, molto formosa.

Ricordo che una volta mi sono appiattato nel suo studio per vedere come passasse le giornate. È entrata la ragazza e lui si è acceso: «Flora, guardi fuori come è sempre affascinante questo mare invernale. Mi piacerebbe molto fare una lunga passeggiata con lei a piedi nudi sul bagnasciuga. Perché le confesso che la sua presenza, nonostante la guerra, mi rende…», e lì è entrata mia madre e lui ha fatto una scivolata d'ala e con voce triste ha continuato, «… profondamente infelice». Mia madre è uscita con la faccia un po' incredula e lui è ripartito: «Mi piacerebbe anche passeggiare con lei sotto gli ulivi delle colline di Sant'Ilario e leggerle pagine da Memorie del sottosuolo di Fedor Dostoevskij; perché, vede, io mi identifico in quel paradossale protagonista…». Si è accorto della mia presenza dietro la tenda: «Che fai lì! Nascosto come un sorcio! Vattene via, non vedi che sto lavorando?».

Aveva sviluppato nonostante tutto una gran voglia di vivere. Un sabato sera, all'inizio della primavera, ha detto: «Domani viene a prenderci Sarteschi con la sua macchina. Andiamo ad Arenzano a mangiare le fave e il formaggio bianco della Colletta».

E mia madre: «No… no, non me la sento, sono momenti molto brutti. Vai con i bambini, se vuoi».

L'indomani mattina alle otto è arrivato Sarteschi strombazzando. Era un avvocato che viveva da solo.

Siamo corsi giù in strada, lui era al volante di una Millecinquecento bianca decappottabile, sembrava un'astronave. Siamo partiti, Sarteschi al volante, mio padre al suo fianco e noi bambini dietro. Non c'erano le autostrade, e viaggiavamo sull'Aurelia piena di curve, ma anche piena di fiori: glicine, mimose e bouganville di vari colori.

Mio padre era felice e cantava: «Ma l'amore nooo! L'amore mio non puòoo…».

E Sarteschi: «E allegro oggi, eh, ingegnere?».

«Sì, lo confesso, ma non so per quale motivo.»

Io lo sapevo benissimo.

Ed ecco un rettilineo con una ventina di ciclisti dilettanti che si allenava. Sarteschi ha suonato timidamente il clacson e quelli nulla, non lasciavano passare. Ha suonato ancora. Niente.

Allora mio padre che era un tipo fumantino, strombazza varie volte e a Sarteschi: «Superi!». E mentre sorpassiamo il gruppo urla: «E levatevi di mezzo! Stronzi!», e ha sputato. Poi, con voce da topo e con una certa ansia, dice a Sarteschi: «Veloce, veloce! Vada più veloce!».

In fondo al rettilineo una curva e subito dopo un passaggio a livello chiuso. Arrivano i ciclisti, e in un silenzio orrendo lo estraggono ancora vivo dalla macchina. Uno gli ha sparato subito una cannonata sul naso, lui è caduto giù come un cencio, lo hanno tirato su. Hanno cominciato a fargli la vite al naso e alle orecchie, e poi ginocchiate rimbombanti sul costato. Lui diceva flebilmente: «Moderate le parole, cerchiamo di spiegarci civilmente».

E mentre ricadeva giù sull'asfalto gli urlavano: «Vigliacco! Tu sei un povero vigliacco! Una merdaccia!».

Io e mio fratello eravamo esterrefatti. Gli hanno strappata, quasi strozzandolo, la cravatta. Si è alzato il passaggio a livello e i ciclisti si sono involati. Lui era con la faccia a terra, gli avevano anche strappato entrambe le maniche della giacca. Sarteschi è sceso per tirarlo su.

«Tutto bene, ingegnere?»

Lui è risalito in macchina in silenzio, perdeva sangue dal naso e aveva perso anche una scarpa.

Sarteschi: «Come va, ingegnere?».

E lui, con una voce che non era la sua: «Benino».

Abbiamo fatto un'altra decina di chilometri, lui si passava la mano sul viso, si è voltato per rassicurarci ma era una maschera di sangue. Poi ha detto a Sarteschi: «Si fermi un attimo, devo vomitare». Ha vomitato solo una bava verde ai bordi della strada ed è tornato in macchina: «Sarteschi, mi scuso moltissimo, ma mi sovviene che avevo un impegno di lavoro molto urgente. Abbia pietà, mi riporti a casa».

Lui sentiva tutte le notti il colonnello Stevens da Radio Londra. Le notizie dal fronte erano molto incoraggianti. Stavamo perdendo la guerra e mio padre commentava: «Speriamo bene. Sinceramente non ne possiamo più.»

La mattina del 25 aprile 1945 la guerra è finita. Di colpo, quasi in maniera inaspettata. Fuori una strana atmosfera: tutto fermo, immobile, le strade deserte. Lui stava a spiare da una fessura della tapparella scorrevole quello che succedeva. Io e mio fratello, in piedi su due sedie, eravamo al suo fianco. Abbiamo visto arrivare una motocarrozzetta mimetizzata con due soldati tedeschi.. si fa per dire soldati… con due bambini tedeschi; avevano al massimo diciassette anni. Ricordo le loro facce. Quello che guidava aveva l'elmetto, al suo fianco ce n'era uno biondo che aveva una ferita sulla guancia e perdeva molto sangue. Avevano gli occhi di due animali braccati. Si sono fermati un attimo sotto la nostra finestra e poi sono scappati via. Erano rimasti tagliati fuori. Chissà che fine hanno fatto.

Mio padre ha detto: «Poveracci! Sono i tedeschi cattivi. Ma vi rendete conto di che razza di cosa stupida è la guerra?».