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Ogni tanto, girando l'Italia per lavoro, spinto non certo dalla curiosità di conoscere questo mediocre paese, ma solo da una malattia molto diffusa, l'avidità, ho capito che strano rapporto abbiano gli italiani con la città in cui vivono.

I veneziani, per esempio, sfruttano ignobilmente la città di gran lunga più bella del pianeta lasciandola affondare di cinque centimetri l'anno. L'avidità dei suoi abitanti è proprio fantastica. Nella gerarchia del mondo animale le specie più feroci sono le iene del Serengeti, poi i gondolieri veneziani, poi i marabù e gli avvoltoi del Kalahari, poi i motoscafisti veneziani, con tutti i venditori di maschere dorate, oggettini di vetro e atroci gondole in plastica a Rialto, e poi tutti i feroci venditori di portafogli in pelle che assaltano i turisti al Ponte Vecchio a Firenze. Queste belve sono capaci di finanziare spedizioni punitive contro i concorrenti vu cumprà.

È chiaro comunque che odiano la loro città, ne fanno uno sfruttamento intensivo, e ai loro bisnipoti lasceranno solo il ricordo di un passato straordinario.

Ma l'atteggiamento più curioso ce l'hanno gli abitanti delle città del Sud.

Io ho fatto molti spettacoli disastrosi nel Meridione e ho capito che, quando rischiavo di non uscirne vivo, mi conveniva fare una pausa ignobile, ma di grande effetto, e urlacchiare: «Signori di Marsala!» o di Palermo, Messina, Trapani. «Ho il piacere di essere qui nella città più bella…» e con un urlo finale disperato «del mondo!».

Be'! A quel punto fare lo spettacolo non aveva più senso. Gli spettatori si alzavano in piedi e urlavano come ossessi: «Sei un grande! Tu si che sei veramente un uomo intelligente!». E poi altre urla confuse: «Grand'uomo! Superbo!». Spesso dal fondo sala si alzava qualcuno che, in un silenzio orrendo, gridava: «Voi siete un bell'uomo!».

Una sera passeggiavo per le vie di un'agghiacciante cittadina del profondo Sud. Era notte. Con me, il sindaco di mezza età, sua moglie e l'assessore alla cultura. Mi sono fidato e ho detto: «A voi, però, una cosa la posso dire. Amate disperatamente la vostra città, ma in realtà la odiate, la umiliate; non vedete tutta questa sporcizia che c'è in giro?».

Il sindaco si è bloccato: «State a sentire, forse una volta, ma la città negli ultimi dieci anni si è trasformata, è diventata una città civile e noi la rispettiamo…».

Eravamo nella grande piazza con il monumento ai caduti.

«Scusi un attimo» si è interrotto il signor sindaco, «solo un attimo.» È andato verso la lapide e ha fatto una pisciata interminabile, da cavallo ungherese. Quasi due minuti.

* * *

Io sono genovese. Dalle mie parti è difficile sentir dire che viviamo in una città attraente; semmai solo commenti negativi. D'altronde la nostra è una città in declino: triste, piena di gente ringhiosa e inospitale. Uscite in una serata d'inverno quando tira la tramontana, c'è una pioggerellina infernale e siete dalle parti dello scalo di Terralba: non c'è un'anima, tutto chiuso. E allora l'unica soluzione possibile è impiccarvi in silenzio a un palo della luce.

Vedete, io avrei molte cose da dire su questa città, ma posso sintetizzare tutto in una frase: Genova è la mia città.

E stata la prima volta di tutto.

Dei primi bagni a San Nazaro con mia madre e mio fratello in un mare straordinario, che era pieno di gabbiani, di pesci e di cormorani. E ci si arrivava tutte le mattine su un autobus con il terrazzino posteriore aperto.

E poi, dall'altra parte del cortile, il viso di una ragazza, che ai primi di luglio mi mostrava una ciliegia e mi diceva: «Mangiala! E se è la prima di quest'anno esprimi un desiderio. Ma non rivelarlo! Altrimenti non si avvera».

E poi quelle bonacce di luglio, quando il mare si fonde con l'orizzonte e verso sera ci sono solo le barche dei pescatori diretti a Punta Chiappa.

Non c'erano le automobili e si andava tutti a piedi.

E poi mi piacerebbe tornare a quel pomeriggio di giugno, quando fingevo di non averla vista e invece avevo la sua fotografia nel portafogli. E a quell'altra volta, quando lei mi corre incontro all'orologio del Lido e io che la schivo per gioco. E un'altra volta che ero partito per cinque giorni con i miei genitori e ogni sera le avevo scritto una lettera d'amore molto intensa e bella. E poi quella volta a Londra, che erano quattro mesi che non la vedevo, ed eccola che scendeva le scale di quella casa di mattoni rossi, con quel vestito a scacchi grigio. E come ero felice tornando da quella gita alle Pietre Strette, il giorno di Pasquetta, ed era la prima volta che uscivo con lei e lei aveva le scarpe da tennis e un piccolo sacco da montagna con i panini e la frittata. Nel pullman di ritorno l'abbracciavo davanti alla gente e non mi sembrava vero di avere il coraggio di farlo… e che lei fosse proprio lei, lì a portata di abbraccio solo per me, mia proprietà! Come sarebbe bello rivivere tutto un'altra volta: quei bagni di notte al Boschetto a Bogliasco, e ci andavamo quasi tutte le sere del mese d'agosto senza portare i costumi, fingendo di dimenticarli ogni volta; e lei si tuffava nuda dallo scoglio, l'acqua era fosforescente e il suo corpo lasciava una scia come quella di una stella cadente. E quando usciva dall'acqua si sedeva sullo scoglio e luccicava tutta, come Campanellino nei giardini di Kensington, e mi diceva: «Abbracciami che ho freddo».

E poi sarebbe bello rivedere il panorama di una bellezza straordinaria, che si apriva subito alla vista quando si spuntava nella piazzetta di San Rocco di Camogli. E tornare a Nervi della mia infanzia, con le campane al mattino, le colline verdi sul mare e le macchie di sole che giocano a primavera nelle viuzze ammattonate di Capolungo, e un gatto che le insegue cercando di acchiapparle.

E il mare di giugno con i meloni e le gocce ghiacciate sui bicchieri di orzata… e le lampade elettriche fra le foglie verdi e la rugiada che faceva posare la polvere nel fresco notturno.

E Sant'Ilario Alto, con la svolta tra i cipressi e io e lei che scendiamo dalla bicicletta per mangiare le more lungo la strada.

E a quel novembre grigio del 1938. Il mare invernale è leggermente mosso e color fango, perché in quel punto il torrente Bisagno esce in mare aperto. Sono con mio fratello gemello e mia nonna Delia, e stiamo tornando verso casa. Fa quasi freddo e stiamo mangiando, da un cartoccio fumante, delle castagne arrostite.

Passando vicino alla spiaggia, vediamo dei pescatori che escono con due gozzi, buttano le reti a duecento metri di distanza e da terra, con quattro massicci cavalli color marrone, le tirano su.

È la pesca dei gianchetti, che sono i piccoli delle acciughe. Si mangiavano crudi con un po' di limone, o sbollentati, con olio di oliva e pepe nero.

I pesci vengono raccolti in secchi di zinco e venduti dalle donne che portano scialli neri. Urlano come muezzin: «Sun belli! Sun belli freschi! Vegnì a vedde donne!».

A un tratto delle voci: «Il Rex! Ecco il Rex!».

Il Rex era l'orgoglio della nostra marina mercantile. Cinquantaduemila tonnellate. Aveva vinto proprio in quei mesi il Nastro azzurro, il primato di velocità nella traversata atlantica. Ci aveva messo solo otto giorni.

«Eccolo! Eccolo!», e tutti a correre verso la linea del bagnasciuga con i piedi al limite dell'acqua fredda. Preceduto dal fortissimo suono delle sue trombe, ecco il Rex! Appare all'improvviso, è una montagna nera di almeno seicento metri, coi fumaioli tricolori illuminati da un ultimo raggio di sole.

È un attimo, solo un attimo. Gira intorno alla diga foranea e scompare all'orizzonte.

E poi quel sabato di giugno, quando mio padre aveva ricevuto la cartolina precetto e l'avevo accompagnato all'Unione militare, e si era comperato una magnifica sahariana nera, gli stivali con due lunette di ferro sui tacchi e un fez con l'aquila d'argento e un grande fiocco che, scendendogli sugli occhi, rendeva i suoi spostamenti estremamente pericolosi.

La vestizione del guerriero avvenne nel salotto di casa.