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Mia madre sibilò sottovoce: «Andate via, cialtroni! Con voi faremo i conti dopo!».

Abitavamo in un palazzo che è la casa della mia vita. Era in riva al mare.

Tutto quello che ho letto, la metamorfosi di Gregorio Samsa a Praga, o l'uccisione delle due vecchie di via Sennaja a Pietroburgo da parte di Raskolnikov, lo immagino ambientato lì.

Era una casa camoglina, coi fregi dipinti, alta, aveva nove piani. All'ultimo abitava un salutatore naturale, un certo Rainato. Salutava tutto quello che vedeva, tipo: «Saluto quell'imbianchino là in alto!».

Si dice che una volta, per lo stupore, un imbianchino sia caduto dall'impalcatura, e che Rainato sia scappato e che non l'abbia mai confessato a nessuno. Dal suo terrazzo sul mare la sera urlacchiava: «Saluto i pescatori di quelle barche là in fondo, che presumo vadano a pescare!».

Non rispondevano mai.

Si tornava a casa da scuola verso l'una e cinque. C'era un ascensore in noce scolpito in stile liberty, i vetri smerigliati con tanti fiorellini e un divanetto di raso rosso con sopra un merletto bianco. E poi una lucente bottoniera in ottone. Noi si scendeva dal tram, mio fratello aveva sulla schiena il mitico vocabolario di greco, il Rocci. Pochi lo ricordano, ma pesava almeno ventidue chili. Si cominciava a galoppare, sapevamo che il salutatore ci aspettava al varco per fare l'ascensorata insieme a noi. Lui stava nascosto tra i pitosfori e io e il «Rocci» si partiva a tutta forza verso l'ascensore. Via!

Lui perdeva terreno e a cento metri di distanza urlava: «Ascensore! Aspettate!».

Noi, muti come topi, chiudevamo le porte.

Lui arrivava, apriva il cancello: «Un momento, per favore!».

Entrava. Noi avevamo le facce basse da ramarri e lui: «Buuuongioornooo! Come va?».

Nulla. Come se fosse invisibile.

L'ascensorata durava quasi un minuto, un tempo ascensoristico clamoroso. Al quinto piano i due ramarri uscivano veloci e senza salutare.

Passano infruttuosamente tre anni e mezzo. Per tre anni e mezzo, tutti i giorni all'una e dieci, la stessa drammatica scena.

«Ascensore!»

«Buuuongioornooo. Come la va?»

Nulla!

Una mattina di primavera, in ascensore, eravamo in questa formazione: Rainato, mio fratello a contatto di ventre con lui, pupilla nella pupilla, il Rocci e poi, ben protetto, io.

L'ascensore si ferma al quinto piano. I due topi maledetti stanno per scappare. Rainato, che era un uomo enorme, ci blocca: «Fermi! Vi posso chiedere una cosa? Ma voi, Villaggio, perché non mi salutate?».

Ho sentito il fremito d'imbarazzo di mio fratello che, pupilla nella pupilla di Rainato, ha fatto una lunga pausa e poi ha detto: «Ci scusi. Non l'avevamo vista».

Rainato è rimasto marmorizzato da quella risposta paradossale, e noi siamo scappati senza salutare.

La nostra timidezza qui fa ridere, ma diventava motivo di autentica sofferenza nei rapporti con le ragazze.

Il compagno di banco di mio fratello era della stessa risma: timido come una suora svizzera. Si chiama Paolo Fresco e ha fatto una grande carriera alla Fiat. Sua sorella Giuliana organizzava, tutte le domeniche pomeriggio, delle feste. Cominciavano verso le due, i dischi erano ancora quelli grossi in bachelite e le canzoni erano: «I cadetti di Guascogna, Il re del Portogallo non sa ballar la samba, Misteriosi tamburi zulù, rullate rullate… Arriva il negro Zumbòn ballando allegro il baiòn… Che mele! Che mele! Son dolci come il miele, sono buone, sono rosse, son buone da mangiar!». Erano delle canzoni vomitevoli! Ma non c'era di meglio.

Eravamo tutti bruttini, e anche le ragazze erano in gran parte insignificanti. Ce n'erano di diverse misure e taglie: alcune molto piccole, di gamba corta, che pesavano ottanta chili. Molte con naso da rapace. Due erano alte quasi due metri, trentotto chili l'una. Non si truccavano, perché era vietato dalla morale corrente. Tutte con delle gonne scozzesi plissettate, un maglioncino d'angora e, la domenica, un filo di perle della madre.

Io e mio fratello eravamo i più disastrati. Entravamo terrorizzati e ci andavamo a mettere in posizione da battaglia, vale a dire faccia contro la tappezzeria di carta marrone chiaro del salotto.

Mani: due spugne. Salivazione: azzerata. Due trote marce sotto le ascelle.

In quello stato consumavamo pomeriggi interi, faccia al muro, nella speranza che arrivasse qualcuna a rivolgerci la parola.

«Ma che fai qui, con la faccia al muro? Vieni in mezzo a noi, devi essere abbastanza simpatico!»

Mai niente.

Pomeriggi interi a respirare l'odore di quella tappezzeria. Era gialla.

La stanza era sempre piena di imbecilli che ballavano e noi, a macerarci.

«Ma come è possibile? Non capiscono, queste sceme, che noi siamo animali diversi, superiori?»

I banchi di scuola erano di legno e stare cinque ore seduto mi provocava un fastidioso fenomeno di cartonatura natiche. Mi ero portato da casa, allora, un piccolo cuscino del salotto di mia madre, mi ci sono seduto sopra e in classe è scoppiata una grande allegria. Il professore di latino, uno squilibrato, si è alzato e mi ha detto: «Dammi quel cuscino! Questo è l'inizio di un caos totale! Un'autentica rivoluzione!».

Ha preso il cuscino e lo ha buttato dalla finestra. Eravamo al primo piano, a un metro e ottanta dalla strada. Mio fratello si è alzato e si è buttato di sotto.

Tutti in piedi ad applaudire! Quella sì, un'autentica rivoluzione.

Il professore squinternato corre a chiamare il preside. Il preside è entrato vestito da preside, con faccia da preside. Era un cretino e ha detto: «Questo è un gesto gravissimo! Un fatto estremamente pericoloso!».

Mentre lui parlava è rientrato mio fratello con il cuscino in mano. Un trionfo!

In una magnifica mattinata di ottobre, sono entrato in classe con un po' di ritardo. Il «Rocci» era già arrivato. Mi sono scusato, ho aperto la cartella e ho tirato fuori gli strumenti da lavoro: un portapenne in legno chiuso da un righello scorrevole che fungeva anche da doppio decimetro. Dentro avevo una penna con un mirabile pennino di vetro. Una rarità.

Ho aperto e richiuso il portapenne varie volte, perché mi piaceva il suo odore, mi eccitava quasi come quello della colla. Poi, lentamente, mi sono voltato dalla parte del sole: volevo vedere se quel pomeriggio si poteva fare un bel bagno agli scogli di Santa Chiara. Dalla parte del sole c'erano le ragazze, un privilegio accordato per tradizione.

Quella mattina ce n'era una nuova. Aveva due occhi straordinari. Prendeva il sole di spalle, sui capelli castani, e sembrava che avesse l'aureola.

«Ammazza, che occhi ha questa!» ho pensato, quasi folgorato.

Lei mi ha sorriso con dei denti bellissimi. Ero quasi ipnotizzato. Lei ha continuato a sorridermi, quasi a dirmi: «Sì, sì. Sei proprio tu. Sto sorridendo proprio a te».

Io sono rinvenuto e, con molto imbarazzo, sono tornato a occuparmi fintamente del mio portapenne. L'ho aperto e l'ho richiuso, e poi mi sono voltato nuovamente a guardarla. Mi ha sorriso ancora e poi, in maniera provocatoria, si è alzata, andando lentamente verso la porta della classe. C'erano due metri di spazio davanti a me, ma lei mi è passata vicino, quasi sfiorandomi. Io tenevo la testa bassa e ho sentito che aveva un odore buono. Le ragazze a quei tempi non si profumavano, ma lei aveva un odore suo, buono da morire. A istinto, avrei avuto voglia di arpionarla, di stringerla, cercando di morsicarle le labbra e di morderle le guance. Invece sono tornato, penosamente, al portapenne di legno.

Quella mattinata passò senza altri episodi rilevanti, ma tornando a casa in tram ho capito che era cambiato tutto. Che da quel momento c'era lei.

L'indomani, stranamente, sono entrato in classe prima di tutti. Non c'era nessuno: solo lei, seduta al mio posto. Le sono andato vicino con un leggerissimo e impercettibile affanno e ho detto con tono ruvido: «Questo è il mio posto!».