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Lei mi ha sorriso: «Sì, lo so. Che male c'è?».

Respiravo a fatica. Lei si è alzata e questa volta mi ha toccato. Ho sentito il calore del suo corpo e poi di nuovo quel suo odore buono da morire.

È andata al suo posto e poi, a salvarmi, sono arrivati il «Rocci», il futuro presidente della Fiat e poi tutti gli altri.

Ma la mia vita, ormai, era cambiata.

Se la guardavo negli occhi il cuore mi si spostava e mi batteva in gola. Non avevo nessuna esperienza e dopo una settimana sono entrato a casa, ho preso mio padre da parte e gli ho detto: «Papà, non sto bene».

Lui si è allarmato immediatamente: «Come „non stai bene“?!?».

«Non lo so…. respiro a fatica… credo che mi si stia spostando il cuore.»

Mio padre era un apprensivo, mi ha afferrato per un braccio e mi ha detto: «Vieni con me!».

Sul nostro pianerottolo c'era il dottor Perdetti, un veterinario veramente. Viveva da solo con una vecchia cameriera.

Stava mangiando delle lasagne al pesto e mio padre: «Perdetti, scusi se la disturbo mentre sta mangiando, ma mio figlio sta male!».

Perdetti non alza neppure il viso dalle lasagne.

«Ah, sì? E che cos'ha?»

«Respira male. Gli si sta come…», e poi rivolto a me, «e parla tu che sai!»

«Io temo che… mi si stia spostando il cuore.»

E Perdetti, senza alzare gli occhi dalle lasagne: «E da quando le succede questo?».

E mentre io cercavo di ricordare lui fa: «Di notte?».

«No» ho detto io, «di notte mai.»

«Al pomeriggio?» E poi, spazientito: «Ma si può sapere quando le succede, allora?».

«Veramente… al mattino. Tutte le volte che entro in classe.»

Perdetti, allora, ha alzato gli occhi dal piatto rivolgendosi a mio padre: «È in classe mista, questo qui?».

E mio padre, spaventato: «Sì».

E Perdetti con un magnifico sorriso: «Ma è innamorato!».

Mio padre mi ha afferrato per il colletto della giacca e, senza neppure salutare Perdetti, mi ha portato quasi di peso sul pianerottolo. Aveva gli occhi a palla, nitriva come un cavallo imbizzarrito: «Allora? Sei innamorato, eh? Il signorino è innamorato!».

Io non sapevo come uscire vivo da quella situazione, e ho detto:

«No! Non me lo permetterei mai!».

Ma la situazione era incontrollabile.

E poi quel malessere, quel batticuorismo tutte le volte che lei mi sorrideva mi piacevano da morire.

Era la prima volta nella mia vita in cui una sensazione di malessere mi rendeva felice.

Poi un bel momento, per orgoglio, ho pensato anche di uscirne fuori. I miei compagni mi domandavano: «Lei ti piace, no?». «Chi?»

«Dài! Non fare il tonto, hai capito benissimo!»

«Aaah! Volete scherzare? Ma niente di niente! Mi è completamente indifferente, anzi mi è un pochino antipatica.»

Tornavo a casa. La regola di ferro di mia madre era che alle ore 15 bisognava mettersi a studiare. Io aprivo la finestra della mia camera sul mare mentre il «Rocci», che era pazzo, studiava in corridoio attaccato con le dita allo stipite della porta perché voleva diventare un forte rocciatore.

Aprivo la finestra sul mare. A insaputa di tutti avevo deciso che la nostra canzone era Che mele! Che mele!. Credetemi, una canzone veramente agghiacciante. Prendevo un disco di bachelite e lo mettevo su un grammofono a manovella. E allora piombavo in uno stato di semitrance. Ecco il suo odore! E poi lei si materializzava. Spostava il tavolo e si sedeva sulle mie ginocchia, io l'abbracciavo e le mordevo le labbra e poi mi sollevavo con lei da terra, uscivamo dalla finestra e giù, a capofitto sopra il boschetto di pitosfori e poi a volo radente sul mare.

Quando c'era il libeccio andavamo a sfiorare la spuma delle onde assieme ai gabbiani.

«Che fai? Studi?»

Era la voce implacabile di mia madre.

«Sì, sì! Mamma, adesso lo faccio.»

«E togli quello stupido disco!»

A quei tempi non c'erano quegli antri infernali e semibui che sono le discoteche.

Una volta, ormai vecchio, m'hanno portato in uno di quei posti sulla Riviera romagnola. Io sono sordo e quasi cieco, e ho avuto la sensazione di essere stato buttato dentro un barile di aringhe. Un odore di sudore sinceramente eccitante, cubiste quasi nude, sfioramenti, luci ipnotizzanti, e ho capito che lì non si usa la parola come mezzo di comunicazione, ma altri segni: capelli colorati, orecchini, piercing, tatuaggi… E le inibizioni, con l'aiuto di alcol e pasticche, in quelle bolge infernali passano. Mi hanno detto che lì si può acchiappare qualcuna (o qualcuno, è indifferente) che non conosci, portarla in un antro buio e sodomizzarla, o sodomizzarlo, e non rivedersi mai più.

Negli anni Cinquanta non c'erano le pasticche, né alcol, né tatuaggi, né soprattutto quei gironi danteschi. Le tecniche di corteggiamento erano codificate. Solo i maschi potevano prendere l'iniziativa. A uno piaceva, per esempio, Teresa, e allora l'aspettava all'uscita da scuola seduto su un muretto. Quando arrivava Teresa lui si alzava e con voce d'attore: «Teresa, scusa. Ti posso accompagnare a casa?».

Le possibili risposte erano: «No, ti ringrazio… non sono ancora pronta. Dammi un po' di tempo».

«Quanto?» domandava allora il disgraziato con voce da lucertola. Una volta una Teresa ha risposto: «Fra nove anni!».

Un'altra possibilità era che Teresa dicesse: «Sì. Con molto piacere!».

Il dichiarante perdeva subito il controllo della situazione, non aspettava neppure di fare cento metri ma lì, di fronte a tutti, urlacchiava: «Non so se ti sei accorta che da alcuni mesi» in certi casi, purtroppo, alcuni anni «la mia vita è cambiata. E tutto questo lo devo…», e qui urlava come una belva, sudava, mani spugnate, un cartone al posto della lingua, «perché io ti devo confessare che… credo di essere…», qui abbassava il volume e diceva con voce da topo «… di essermi innamorato di te».

E Teresa doveva rispondere: «Anch'io credo di poter ricambiare». Oppure: «Non lo so, dammi un po' di tempo».

Il tutto avveniva con intorno un cerchio di spettatori curiosi come faine. Una volta ho visto un povero dichiarante, un certo Cassano, al quale una Teresa ha risposto: «Sì, ti ringrazio per quello che dici, e ti confesso che la cosa mi fa molto piacere, ma io sono già innamorata di Enrico», e ha fatto il gesto di allontanarsi. Cassano è andato giù con la faccia sulla ghiaia, come un coniglio selvatico colpito da una martellata in nuca.

Molti respinti rimanevano in piedi pietrificati. A primavera, che era la stagione degli amori e delle dichiarazioni, all'uscita dell'una ne potevi vedere ogni giorno tre o quattro, come statue di sale. Allora penosamente bisognava recuperarli, risvegliarli con degli schiaffetti: «Non è successo nulla! Tutto bene! Vedrai, vedrai, non c'è pericolo!», e li caricavamo sui tram verso casa.

I telefoni delle case erano tutti lucchettati, ma in assenza dei genitori, trovate le chiavicine, si poteva tentare anche una dichiarazione telefonica. Fresco, quello della Fiat, su mio consiglio ha tentato una dichiarazione telefonica a una certa Giorgia. Ha infilato la testa in una conca di rame e ha cominciato con voce a tromba: «Pronto? Sono…».

Ma Giorgia l'ha interrotto subito: «Ma che fai? Parli con la testa in una conca di rame?».

Per la vergogna abbiamo chiuso la comunicazione e lui è rimasto a pavimento. È stato terribile, perché per ignoti motivi gli si era gonfiata la testa ed era rimasto incastrato dentro la conca.

È entrato suo padre: «Ma che succede?».

«Nulla, nulla…» ho detto, «lui è occupato, poi… le spiego.»

Fresco non è mai stato fortunato nelle azioni supreme con le donne. Una decina di anni dopo ce n'era una che gli dimostrava un grande interesse. La cosa lo lusingava molto, ma lui fingeva di esserne infastidito. Finché la ragazza, esasperata, gli ha detto: «Basta! Chiuso! Ho trovato un tecnico dentista che mi sposa… guarda che lo faccio, eh?!?».